giovedì 3 aprile 2014

DUE PROFETI DELLA MUSICA

Antoine Watteau - La proposition embarassante


Chiunque udisse dire che le composizioni musicali del primo settecento si definiscono barocche avvertirebbe se non altro un senso di falso all'orecchio, qualcun altro addirittura penserebbe alla solita balla di turno. Sarebbe, infatti facile paragonare una tale asserzione alla svista grossolana che si prenderebbe parlando, per esempio di un Metastasio o di un Rolli, Frugoni o Zappi come di autori barocchi, il che è ridicolo.
Eppure, la musica scritta grosso modo nella prima metà del settecento ebbe proprio i caratteri del barocco e non si gridi allo scandalo. Era una scrittura, strumentale o vocale, ad ampie volute, di una sovrabbondanza stilistica, talora parossistica, che ben si accorda con il virtuosismo esibizionistico del modellato del Bernini, maestro dell'arte secentista. Più che manifestare in pochi tratti un'idea o un'emozione, i compositori di quel tempo (il primo settecento, per l'appunto) badavano a elaborare complesse strutture formali entro le cui maglie era da individuare un significato. Così sono imbastite le pagine di Georg Friederich Handel, come d'altronde anche quelle di Johan Sebastian Bach, come pure quelle di Domenico Scarlatti, Antonio Vivaldi e Gianbattista Pergolesi e più tardi Domenico Cimarosa, Antonio Paisiello e così via, in generale, cioè nei musicisti contemporanei, in chiave, quindi di esaltazione dell'intelaiatura espressiva come valore artistico.
La parentesi barocca in campo musicale era stata aperta già nel secolo prima qui in Italia con i vari Monteverdi, Frescobaldi, Carissimi, i quali avevano portato a maturazione il linguaggio rinascimentale, rendendolo più ricco, elaborato e sensibile. In essi, soprattutto nel primo, si coglie la ricerca del suono innanzitutto e della piacevolezza dell'effetto.




Ma è con la musica napoletana, vocale del Pergolesi e strumentale dello Scarlatti figlio, e con quella veneziana di Vivaldi che di qua dalle Alpi si verifica un irrobustimento del fraseggio, il quale, pur sempre in un clima barocco, tende verso una maggiore densità comunicativa. Una simile evoluzione viene a delinearsi anche nella produzione dei due musicisti-chiave d'oltreconfine dell'epoca, Bach e Handel.
Se, però, nei due grandi appena nominati si assiste alla piena esplicazione della tecnica musicale barocca, che raggiunge nei due tedeschi (per la verità Handel si trasferì nel Regno Unito assai presto, per cui potrebbe anche chiamarsi britannico) raggiunge livelli di alta perfezione, specie in Bach, dov'essa si coniuga con un saldo retroterra spirituale, quello del luteranesimo, nel napoletano Domenico Scarlatti, come in un certo senso nel contemporaneo Gianbattista Pergolesi a Napoli, e nel veneziano Vivaldi, diversamente, l'arte del suono sembra compiere due passi in una volta, anticipando, pur nel quadro di una resa schiettamente barocca, la fioritura musicale del secondo settecento, che trovò nel mozartismo e nell'haydnismo il suo fondamentale sviluppo.




Ascoltando i lavori di Scarlatti, ci sentiamo immersi di colpo nella Napoli del principe illuminato Carlo III, ed ascoltando quelli di Vivaldi sembra di essere trasportati di sana pianta nella Repubblica veneta del tempo, in loro, cioè si rileva molto colore locale e temporale, laddove, per esempio, un brano di Handel fa pensare più all'epoca dell'assolutismo monarchico di marchio hobbesiano e uno di Bach al trionfo della Riforma in Germania con la Guerra dei Trent'anni: insomma con gli ultimi due si viene catapultati nella storia del secolo prima, il XVII.





In Scarlatti (e ancor di più nel suo successore a Napoli Domenico Cimarosa), come in Vivaldi, c'è dunque una maggiore contemporaneità di sfondo rispetto ai predetti due musicisti esteri dell'epoca, i quali sembrano guardare piuttosto al passato, laddove essi hanno l'occhio verso il presente e, per molti versi proiettato verso il futuro.
Nelle 500 e più sonate per clavicembalo (trasposte molte per pianoforte successivamente per mano altrui) del napoletano, il continuum barocco si sposa con una leggerezza di tono e, soprattutto una spigliatezza e agilità di cadenze che sono tutte settecentesche, come i minuetti e i rondò che caratterizzeranno tanta moda musicale più tardi nello scorcio del secolo. Nato nel 1865 nel capoluogo campano, egli fu al servizio della corte napoletana, continuando la tradizione del padre Alessandro, operista. I due termini entro cui si inscrive la suaproduzione sono, poco fa illustrati, ossia il pesante continuum barocco e la grazia scanzonata del rococò, l'equivalente del momento culturale che allora viveva Napoli, impersonata in un certo senso dal principato illuminato di Carlo III. Presa tra l'incudine e il martello, vale a dire tra l'obbedienza all'etichetta di facciata del potere spagnolo, rigidamente assoluto e gesuitico, e il bisogno di una maggiore libertà e spregiudicatezza di vita, non legata oltre tutto a cerimonie e pratiche cattoliche e cortigiane, la Napoli di allora si avviava verso l'aurea stagione dei Filangieri, Galiani, Genovesi e della susseguente Repubblica per così dire giacobina del 1799 (il periodo, crediamo, più splendido della storia di Napoli) e Scarlatti fu di quella premessa epocale la personificazione artistica. Una Napoli stretta tra l'antico spagnolismo, che pure aveva generato le superbe opere del Marino e del Bernini, e l'ansia di un futuro più vero, più vivo, più libero. Fu, questo, in sintesi il terreno su cui poté venire alla luce e attecchire la musica dello Scarlatti, con un piede nel sei e uno nel settecento. Non per nulla il suo successore, Domenico Cimarosa fu un po' l'anima musicale della rivolta repubblicana di fine secolo, sull'onda della rivoluzione francese e di Napoleone.




D'altra parte, opere come i concerti grossi e le famose Quattro stagioni del veneziano Vivaldi ci trasportano di sana pianta, come si diceva, nel cuore pulsante di Venezia dei primi del settecento, nel suo splendore di repubblica dai ricchi commerci con l'Oriente, ma, nello stesso tempo, ci danno il senso dell'intimità controriformistica del cattolicesimo, che aveva definitivamente scongiurato i pericoli di un allargamento della rivolta protestante. Egli stesso, Vivaldi, soprannominato il prete rosso, vestì l'abito sacerdotale e rimase fedele alla sua funzione pastorale per tutta la durata della sua esistenza, vissuta per gran parte a Venezia, dove era nato nel 1678, svolgendo per lunghi anni l'ufficio di insegnante e maestro di cappella del Conservatorio della Pietà. In lui si riconosce, dunque l'alito dei tempi nuovi, dalle fortune commerciali della repubblica veneta del primo settecento alla religiosità più intima, sentita, ma anche più moderna della controriforma cattolica.
E' forse, sul piano più strettamente musicale, l'acuta sensibilità del ritmo che in Vivaldi permette di scorgere in prospettiva i prodromi della futura evoluzione di quest'arte, evoluzione che con Mozart, Haydn, Gluck e Cimarosa segnerà la nascita della futura matura sinfonia e dell'opera senza recitativi, insieme ad una forte tensione verso l'individualità, tutte cose che mancano negli autori del periodo di cui stiamo riferendo o, almeno cominciano appena a intravedersi appunto in Scarlatti e Vivaldi. Il ritmo vivaldiano fa da contrappeso al contrappunto barocco e gli dà modo di superarsi, pur essendo se stesso. E' qui il segreto della doppia riforma del compositore veneto, che, da una parte dà solennità al suono e dall'altra gli dà concretezza e materialità. In questo senso egli riesce a introdurre nella sua arte la gravità dell'empito religioso controriformistico e il realismo dell'affarismo mercantile della repubblica veneta del settecento, che avrebbe trovato, quest'ultimo, più tardi nel teatro goldoniano la sua continuazione e maturazione letteraria.





E pensare che Vivaldi e Scarlatti furono contemporanei più o meno esattamente di Bach e Handel! Eppure, forse, entrambi i musicisti della penisola, così legati al loro ambiente di vita tanto da farlo come risuonare nelle loro opere, giusto all'inverso degli altri due, che vissero sempre più o meno bene dove si trovavano, Bach tra Lipsia e dintorni ed Handel tra Londra e dintorni, verso la fine dei loro anni vennero in rotta con quel loro ambiente patrio e così il veneziano finì per morire nel 1741 a Vienna, lontano dalla sua laguna, e il napoletano (pare per una poco onorevole storia di pettegolezzi tutta alla partenopea, che non ci lascerebbe stupiti neanche oggi, a tre secoli di distanza) a Madrid, dove trovò per molti anni una calorosa accoglienza, nel 1757.
Segno forse che i profeti, sia pure in musica, come furono Scarlatti e Vivaldi, non sono mai benvoluti in patria, e prima o poi le cose finiscono male. Lo assicura il detto nemo propheta in patria.