Paul Klee - Prigioniero |
Per i miei lettori, ecco qualche mia poesia rivisitata insieme a un passo dalla raccolta di racconti in forma di romanzo Teologia, mai uscita in volume così come le poesie, per quanto già comparsi l'uno e le altre su un giornale del nolano, Obiettivo Saviano.
Giungano come una strenna natalizia, per esorcizzare tutti gli obbrobri della cultura ed editoria pubbliche della penisola.
INTERMEZZO DEL
VIANDANTE
E quando poi il cromo
risplenderà
di vero argento alle pareti e fiori
in plexiglas d’arancio olezzeranno,
allora le albe suoneranno accordi
in la e arpe salperanno per l'azzurro.
di vero argento alle pareti e fiori
in plexiglas d’arancio olezzeranno,
allora le albe suoneranno accordi
in la e arpe salperanno per l'azzurro.
IN DATA…
Quello era solo il pallido ricordo,
non era quello il cedro, né più il vento
che c’investì o quei sedili e lo sguardo
del busto antico sul viale alberato.
Non era lì dove favoleggiammo
splendidi approdi sulle nostre rotte,
di là dall’orizzonte c’imbattemmmo
nei pirati e ci furono sfasciate
dalla burrasca le golette: appena
ci riportò nel porto la scialuppa.
No, quella vasca era lì tutta piena
di pesci, allora, e al tuo collo una sciarpa,
non questo l’asfalto lungo il cammino,
non lo chalet del bar ora sfollato,
né tu, ora chi sa dove, né io e perfino
non era Lia il tuo nome e l’ho scordato.
SONO PRIMAVERE
E’ una vita, la Nike della piazza,
tante vite, che trionfa solitaria.
Alato, tace il suo bronzo la gazza
in lei, la sua corona alla memoria
di foglie non spera fiori d’alloro.
Ma trionfa e amari succhi verderame
spreme sotto il panneggio a suo tesoro
unico, a sua vittoria solo carme.
GERUSALEMME LIBERATA
Una marina a olio nel cuore, è meno
amara la strada, più velenosa
ogni spiegazione. Il mirto, l’ameno
alloro è alla stazione tra l’afosa
folla la scala mobile delle otto,
la firma sul registro, la bolletta
del gas. E’ a scogli dell’appuntamento
all’ufficio che s’infrange ogni alata
fantasia,si dissolve ogni visione
tassesca al semaforo, l’ouverture
alla scadenza d’assicurazione
si spegne. La cetra, aurea parure
di lusso, non s’intona ai tram ed autobus,
Apollo ha traslocato, ha ricamato
il pianoforte il ragno, è un tale rebus
aggirarsi tra noni piani e il conto
in banca, tra i taxi, i timbri e scontrini
che il David è superfluo, un voluttuario
brandy. Fedele a Zeus, o tu che eterni
il culto di biblioteche, stradario
poichè non vi fu che guidasse al
cielo
ed in stanze oscure aprisse le luci,
sicchè appassì le nostre rose il gelo,
quando ci giudichi, non condannarci
all’onta se disertammo, passando
al nemico: erano troppi gli autentici
traditori, non c'era patria il mondo.
traditori, non c'era patria il mondo.
Erano le quattro e mezza, ma ormai della
notte, anche nella casa paterna di provincia del signor Quercia, antiquario,
quando un’anima anche lì in pena vegliava. Alfonso, era all’ingiro un paio di
settimane che a Napoli faceva la sua comparsa solo di giorno e solo alcune
volte, non quotidianamente. Quella città, che amava sopra ogni altra, non
l’amava poi tanto, sicché, appena sentiva
il bisogno di ritrovarsi e chiudersi
in se stesso, specie quando, come ultimamente, qualche spina
tagliente gli incideva l’animo, preferiva correre subito a rintanarsi
nel suo luogo d’origine, in quella dimora di famiglia, ch’era per lui come un
grembo materno: e, in certe parentesi più avverse della sua esistenza, quale
quella presente, allontanarsi di lì equivaleva, ogni volta che vi era
costretto, a recidere un cordone
ombelicale. “ Sicuramente avrà qualche tarlo per il capo”, si mormorava
tra i suoi dipendenti, 2 impiegati e 4 lavoranti, nel vederlo così saltuariamente presentarsi
alla ditta; e c’era chi,
tra loro
opinava, maliziosamente –
Scommetterei sulle mie tasche che è una faccenda di gonnelle – e chi, tra il
severo e il cinico sentenziava – Dopo tutto, se qui gli affari non girano al
meglio, sono innanzitutto affari suoi -. Difatti egli, da un po’ in qua,
trascurava il lavoro.
Le quattro e quarantacinque. – Possibile non
chiudere occhio! I minuti mi percuotono le tempie, la notte mi assale come un
fiume in piena o è lei? Non conto più i sonni volati in bianco, da qualche
tempo. E’ quell’immagine, quell’immagine
che ha preso stanza in me e ha cancellato tutto il resto, anche l’oblio del
riposo! Sembro un’Ofelia tragica o lady Macbeth in preda alla follia. Vorrei
fuggire da me e non posso. La mia vita dipende solo da lei. Sudo. Vero, non ho
spento i caloriferi. Bello, essere l’assoluto padrone di una casa grande di
notte, dà l’idea della regalità, o forse della divinità. Non sia stata questa
una delle ragioni per cui ho lasciato Rosalba? No, che dico. -
Rosalba? Un connubio durato sei anni, gli
ultimi due, uno sfacelo. – Che donna quella! Gliel’ho ripetuto non so quante
volte: ti ho sposato per vizio professionale,
mi apparisti allora un lampadario Luigi XVI, una specie di Versailles,
tutta un rigoglio femminile – E lo era per
davvero un fiore di beltà a quel
tempo, niente di spropositato, sia chiaro, non un’attrice del cinema, Rosalba,
ma un gran bel pezzo di figliola, sì, fuor dell’usuale ordinarietà. Ma era
tutto qui, e Alfonso non se n’avvide che troppo tardi. Un essere alquanto
superficiale, per non dire vuoto, Rosalba, ragioniera presso un’assicurazione,
non riuscì loro di legare mai veramente, se non illusoriamente nei primi tempi
- Perfino in luna di miele, ricordo, e purtroppo non vi annettei allora nessuna
importanza, si palesò per quel che era, quando, per esempio, visitando i saloni
del Prado, di fronte a un Velasquez, avendo io insinuato sottilmente, col riso
a fior di labbra, che noi due ci saremmo stati a meraviglia ad amoreggiare tra
il paesaggio traboccante di quel capolavoro, osservò, come distratta da altri
pensieri “ Figurarsi poi amoreggiare con
Humphrey Bogart, non visti, entro una scena da film, a Hollywood! ” La presi
per uno scherzo capriccioso e invece… - Invece era proprio di quella pasta lì,
uno stupido manichino da vetrina, ma molto, molto seducente. La seduzione di
quella Calipso tenne sotto il giogo Alfonso alcuni anni, poi, come destandosi
da un lungo sonno, egli tornò in sé e scoppiò il cataclisma, che si protrasse
diverso tempo, dilaniando la loro vita domestica. Infine si placò, quando la
sua furia scatenata ebbe diviso per sempre i loro destini – Fortuna che non ci
si son messi di mezzo rampolli, sennò il guaio sarebbe stato peggiore, più duro
da scontare -.
Le cinque. La camera da letto tace, tace ogni
cosa. Alfonso si leva dal letto, insopportabili coltri! Alla finestra, dove si
porta quasi con la febbre addosso, lo accoglie la sinfonia del cielo stellato,
con la grancassa della luna di tre quarti e il basso continuo
dell’illuminazione stradale. Gustato quello spettacolo da sogno, Alfonso si
trasferisce, non ne può
più di stare lì dentro, nel
salotto al piano terra: lì. Affondato nella comoda poltrona di felpa magenta di
fronte alle tende di panno della stessa tinta, si sente più a suo agio,
rinfrancato, come già prima, dalla visione dell’esterno nello spacco tra le
tende, con in più, però la coscienza ritemprante di star lontano dal letto.
Cinque e venticinque.
- Tutt’un’altra cosa, Marta. Il rovescio
della medaglia. Se fosse il tipo, avrebbe da
invidiarle le grazie fisiche. Ma a lei non mancano; in fondo, è bellina.
Media di statura, un visino infantile e angelico, quei suoi occhietti rotondi e
luminosi da fiaba, la pelle come lana e alabastro, la capigliatura: lino filato
al fuso d’una fata, proprio una statuetta di porcellana, il mio sogno – Un poco
esagerava, ma Marta non era, poi da buttare: una personcina aggraziata, non di
più, che lui, nel suo trasporto sentimentale, idealizzava lievemente. Più o
meno, con qualche abbellimento di troppo, era quella di Alfonso, però la sua
descrizione somatica. Per il resto a lui
sembrava, e in buona sostanza era così – un tesoro di spiritualità e umanità,
un esempio di qualità individuali, una rarità -, fatta naturalmente salva la
sua iperbole raffigurativa di innamorato, la sua tendenza a calcare la mano nel
ritratto; perché, infatti Marta era un
tipo con la testa sulle spalle, per giunta o per disgrazia (non saprei
dire, stando ai fatti passati e venturi) di ligia osservanza cattolica,
quantunque non fosse certo da ritenersi, come egli tra sé vagheggiava,
imbambolato dalla sua adorazione affettiva, una donna del Paradiso, un’idea
platonica: la realtà era, invero che ella ne aveva di difetti, e molti. Alfonso
appoggiò la nuca sullo schienale della poltrona e si mise a fissare il
soffitto.
- Mi domando se la fortuna mi ha arriso
oppure no, mettendomela sui miei passi. Croce e delizia, macché, suvvia,
piacere più che spina del mio cuore, cento volte più gioia. Quando fu la prima
volta? – La storia durava da poco più d’un anno e mezzo e aveva scompigliato le
loro due vite. La prima volta fu a Elea, la patria di Parmenide, non assai
lungi da Salerno. C’era un simposio dal titolo “Bergson e i paradossi eleati”,
Marta vi era stata invitata come cultrice apprezzata del pensatore francese e
vi portò anche un suo contributo personale in margine alla conferenza, in cui
era stato relatore, tra gli altri specialisti in materia un suo ex-professore
dell’Università di Pavia; Alfonso, per
parte sua non aveva voluto mancare a un così ghiotto e allettante appuntamento.
- Lì scoccò la scintilla, da cui si
levarono le fiamme di quella passione interiore che ancora ci avvolgono. Lei
fece subito colpo su di me, mi parve una leggiadra Minerva, no, non solo. A momenti
ella, in quel luogo classico, da mito in carne ed ossa si trasformava in
simbolo meraviglioso, diventava una lama d’acqua del mare sfolgorante di
sciabole di luce accecante, il frammento d’uno specchio investito di chiarore
-. Il secondo giorno del congresso l’avvicinò, il terzo ed ultimo fecero un
giro insieme tra le antiche rovine di Elea, di rimpetto al mare.
- Lei non crede che la durata, regno
dell’intuizione e negata alla coscienza soggettiva sia nient’altro che
immobilità, unicità, essere indistruttibile, contrapposta, come tale, al
cambiamento, al molteplice e al nulla, che sono la materia e il tempo? – gli
chiese convinta, mentre passeggiavano tra quegli avanzi di pietra della storia.
Alfonso, conoscitore anche lui dell’opera bergsoniana, nonché estimatore di
quella, - No - ribatté – l’essere della durata non è lo stesso della scuola
eleatica. E’ qualcosa di più, è azione
incessante, che proprio nella
stasi parmenidea trova il suo limite e caduta. In esso quiete e moto si
unificano, sono indifferenziati, esso è mobilità immobile. L’αρχή eleate era
incompatibile con il movimento, ridotto a ingannevole parvenza della doxa -
La graziosa accompagnatrice reagì
prontamente, lei che identificava lo spirito dell’essort vitale con il Dio dei
cattolici – Nient’affatto, l’attività è intrinseca all’essere, fa parte della
sua natura, è dunque immobilità e stasi. E’ inconcepibile un principio della
realtà che sia mutevole, una verità che cambi pelle. L’atto intuitivo ci
riconcilia pienamente con le tesi eleatiche sul moto. In esso è vero, e non paradosso
che la freccia in volo rimane ferma e che Achille, correndo, non giungerà mai
alla tartaruga che avanza. L’essere di Zenone è quello di cui parla Bergson e
quello che Valéry ha saputo cogliere – Il gentile cavaliere, a quel tempo già
divorziato, insisté sulla sua idea – Non mi fraintenda, dottoressa Renosto. Io
non metto in discussione la sua competenza culturale. Mi consentirà, però di
divergere da lei su questo punto. Del resto, anche tra gli insigni
conferenzieri, che abbiamo udito avvicendarsi a questo congresso, non c’è
unanimità di vedute a tal proposito. Bergson, secondo me, nell’essort vitale,
fa risiedere insieme lo stabile e l’instabile, razionalismo e sensibilità,
metafisica e scientismo. Il momento intuitivo, come coscienza soggettiva, è il
punto di arrivo, la sintesi e la conciliazione tra quello estemporaneo e
variabile dell’istinto e quello della costanza oggettiva e legislativa
dell’intelletto, che va in cerca del numero, della norma nei fatti
dell’esperienza. Il filosofo che si basa
su quella prima facoltà della mente, comprensiva delle altre due, media
contemporaneamente, d’un sol colpo la contingente momentaneità di un atto
come l’aver fame o un’abitudine come il mangiare, il camminare dell’uomo
ignorante, con la pretesa fissità e intangibilità di una legge della biologia o
della geologia, propria della mentalità dello scienziato -.
Marta lasciò dire, come sua regola nella
conversazione, specie se a sfondo meditativo e intellettuale come adesso. Ma,
quando il suo accompagnatore ebbe finito
non mancò di eccepire – Il suo discorso è giusto formalmente, però
rientra nel mio. Il movimento è un attributo consustanziale all’essere, che è
per sua definizione eternamente in quiete: da esso origina, attraverso quella
sua facoltà apparentemente contraddittoria tutto il mondo sensibile, la storia
naturale e quella civile. Le altre due facoltà dello spirito, connesse e
subordinate alla principale sono quelle che lei ha testé brillantemente
illustrato. Vede, quindi, se ha seguito il filo del mio discorso, che io, e non
lei sono nel giusto -. Quell’ultima frase fu accolta con un sorriso
dall’interlocutore, che così si espresse – Immagino che lei, da buona
spiritualista riconosca all’uomo la piena e integrale libertà. Me la conceda,
allora, la prego, nel discostarmi da lei su questo tema dell’eleatismo in
Bergson-.
Continuarono a discettare sull’impegnativo
problema, aggirandosi tra quei ruderi millenari in quel tardo pomeriggio dei
primi di giugno, sotto i raggi già infuocati che incombevano sui loro corpi
piacevolmente accaldati, fino all’ora che quei dardi dal gagliardo tepore si
avviarono ad affievolirsi, per divenire alla fine dei blandi riflessi di una
lente di vetro prima aurea quindi rutilante, e poi spegnersi sotto la linea
dell’orizzonte, tuffandosi nell’acqua del mare. Promisero, nell’accomiatarsi
quella sera per far ritorno ai rispettivi alberghi, di rivedersi ancora e si
scambiarono gli indirizzi. E la promessa fu mantenuta in diverse circostanze da
allora, a cominciare da quell’estate stessa, in cui lei venne a trascorrere un
periodo di vacanze al sud, ad Amalfi. In altre occorrenze fu lui a salire nella
città di lei, o si ritrovarono a mezza strada, a Firenze, a Roma e una volta
anche all’estero, a Salisburgo, per un concerto
mozartiano.
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SECCHEZZA DI FONTE
Le voci deserte, non altre, lungi,
d’un paesaggio invernale in campagna,
magari una Renault, l’osso d’un cane.
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……………...
E alla festa di S. Elia, a passeggio
tra le baracche e i megafoni, il vomito
cui invita un fosco tempo, le vertigini.
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IN CONCLUSIONE
Molte volte già assistemmo al ritorno
della lucertola ed udimmo il fischio
del rapido, molte applaudimmo al giorno
del compleanno ed appendemmo il vischio.
Fiorì altrettante il giglio a giugno e
uscì
il transatlantico dal porto, i vandali
violarono atroci ancora i nostri usci.
Mai, però che il libro dei nostri annali
privati non fosse come mai scritto,
mai esistito il nostro diario costante,
che dalle nostre tarantelle il fiato
tuo e il suo morso d’iena svanì cocente.
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FIRMATO ALLOCCA
Oserei dire alba, senonchè il fuoco,
ardendo tra tenebre, arrossa il muro
e piomba dalla rupe in alto il falco.
Eppure il vento giammai spegne il cero,
l’onda risale e crolla sulla riva.
Quando poi su estivi cuori la neve
cadesse perenne, vuota ogni stiva,
per sempre lieto chiudere la chiave.
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DEL PESSIMISMO GRATUITO
Buondì: pratiche: firme, e tutto
è come un viaggio arioso in autostrada.
Ma se ristagna nella pozza l’acqua
e il vessillo sta sull’asta afflosciato,
notte illune e senza luci è al passante
e nel legno gira a vuoto la vite.
Poi, mentre che scade il tempo, acqua
fa la barca incatramata ed affonda.
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ALTRE BUGIE
Dove tamburi e buccine fan ressa
e ogni tinta è accesa di fuoco agli
occhi,
via Nolana pare acquario di pesce;
e almeno un’eco risuonasse in cuore
tra questi ferri contorti di ruggine,
le rose sfiorite al vento disperse,
le nuvole appese al monte Araràt
e neve che cade sull’anima, o ira.
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I GIRADISCHI ECCETERA
L’Iliade che scrivemmo
ci vide protagonisti in una storia
da poliziesco insulsa
quanto la bolletta del telefono, aria
familiare e viziata sopra i nostri
appuntamenti da brivido, sopra
il thriller mozzafiato
che vivemmo. Domestico anche il the end,
tra pianti di cari, corone e mesti
telegrammi per l’estremo addio. E’
tutto.
………………..
………………..
Di te, oltre ai fuochi scialbi
che t’incendiavano la testa e al calmo
tuo passo sui giorni così comuni
del nostro calendario,
giocato sui dadi rocamboleschi
di normale amministrazione, al verde
mercoledì di Pasqua
tra i campi, dove, orrore, ci perdemmo,
all’elefante d’agata
made in China di seconda mano, esile,
che si ruppe nel tuo salotto in felpa
cremisi, che mai fu
il mio, come il tuo indirizzo e la
sorte,
mi accompagna il volume
pieno del giradischi,
che da S.Angelo, lassù orchestrava
alla valle, a te disperatamente
pia, a me?, al silenzio freddo
la canzone dei Magi, nella nebbia.
Henry Matisse - La famiglia del pittore