martedì 10 dicembre 2013

UN PO' DI RETROSPETTIVA


Paul Klee - Prigioniero

Per i miei lettori, ecco qualche mia poesia rivisitata insieme a un passo dalla raccolta di racconti in forma di romanzo Teologia, mai uscita in volume così come le poesie, per quanto già comparsi l'uno e le altre su un giornale del nolano, Obiettivo Saviano.
Giungano come una strenna natalizia, per esorcizzare tutti gli obbrobri della cultura ed editoria pubbliche della penisola.
 
 INTERMEZZO DEL VIANDANTE




E quando poi il cromo risplenderà
di vero argento alle pareti e fiori
in plexiglas d’arancio olezzeranno,
allora le albe suoneranno accordi 
in la e arpe salperanno per l'azzurro.







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IN DATA…

Quello era solo il pallido ricordo,

non era quello il cedro, né più il vento

che c’investì o quei sedili e lo sguardo

del busto antico sul viale alberato.

Non era lì dove favoleggiammo

splendidi approdi sulle nostre rotte,

di là dall’orizzonte c’imbattemmmo

nei pirati e ci furono sfasciate

dalla burrasca le golette: appena

ci riportò nel porto la scialuppa.

No, quella vasca era lì tutta piena

 di pesci, allora, e al tuo collo una sciarpa,

non questo l’asfalto lungo il cammino,

non lo chalet del bar ora sfollato,
né tu, ora chi sa dove, né io e perfino
non era Lia il tuo nome e l’ho scordato.
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SONO PRIMAVERE
E’ una vita, la Nike della piazza,
tante vite, che trionfa solitaria.
Alato, tace il suo bronzo la gazza
in lei, la sua corona alla memoria
di foglie non spera fiori d’alloro.
Ma trionfa e amari succhi verderame
spreme sotto il panneggio a suo tesoro
unico, a sua vittoria solo carme.
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GERUSALEMME LIBERATA
Una marina a olio nel cuore, è meno
amara la strada, più velenosa
ogni spiegazione. Il mirto, l’ameno
alloro è alla stazione tra l’afosa
folla la scala mobile delle otto,
la firma sul registro, la bolletta
del gas. E’ a scogli dell’appuntamento
all’ufficio che s’infrange ogni alata
fantasia,si dissolve ogni visione
tassesca al semaforo, l’ouverture
alla scadenza d’assicurazione
si spegne. La cetra, aurea parure
di lusso, non s’intona ai tram ed autobus,
Apollo ha traslocato, ha ricamato
il pianoforte il ragno, è un tale rebus
aggirarsi tra noni piani e il conto
in banca, tra i taxi, i timbri e scontrini
che il David è superfluo, un voluttuario
brandy. Fedele a Zeus, o tu che eterni
il culto di biblioteche, stradario
poichè non vi fu che guidasse  al cielo
ed in stanze oscure aprisse le luci,
sicchè appassì le nostre rose il gelo,
quando ci giudichi, non condannarci
all’onta se disertammo, passando
al nemico: erano troppi gli autentici
traditori, non c'era patria il mondo.


Erano le quattro e mezza, ma ormai della notte, anche nella casa paterna di provincia del signor Quercia, antiquario, quando un’anima anche lì in pena vegliava. Alfonso, era all’ingiro un paio di settimane che a Napoli faceva la sua comparsa solo di giorno e solo alcune volte, non quotidianamente. Quella città, che amava sopra ogni altra, non l’amava poi tanto, sicché, appena sentiva  il bisogno di ritrovarsi   e   chiudersi  in   se  stesso, specie   quando, come  ultimamente, qualche   spina   tagliente gli incideva l’animo, preferiva correre subito a rintanarsi nel suo luogo d’origine, in quella dimora di famiglia, ch’era per lui come un grembo materno: e, in certe parentesi più avverse della sua esistenza, quale quella presente, allontanarsi di lì equivaleva, ogni volta che vi era costretto, a recidere   un   cordone   ombelicale. “ Sicuramente avrà qualche tarlo per il capo”, si mormorava tra i suoi dipendenti, 2 impiegati e 4 lavoranti, nel vederlo così saltuariamente   presentarsi   alla   ditta; e  c’era  chi, tra  loro   opinava, maliziosamente – Scommetterei sulle mie tasche che è una faccenda di gonnelle – e chi, tra il severo e il cinico sentenziava – Dopo tutto, se qui gli affari non girano al meglio, sono innanzitutto affari suoi -. Difatti egli, da un po’ in qua, trascurava il lavoro.
Le quattro e quarantacinque. – Possibile non chiudere occhio! I minuti mi percuotono le tempie, la notte mi assale come un fiume in piena o è lei? Non conto più i sonni volati in bianco, da qualche tempo.  E’ quell’immagine, quell’immagine che ha preso stanza in me e ha cancellato tutto il resto, anche l’oblio del riposo! Sembro un’Ofelia tragica o lady Macbeth in preda alla follia. Vorrei fuggire da me e non posso. La mia vita dipende solo da lei. Sudo. Vero, non ho spento i caloriferi. Bello, essere l’assoluto padrone di una casa grande di notte, dà l’idea della regalità, o forse della divinità. Non sia stata questa una delle ragioni per cui ho lasciato Rosalba? No, che dico. -
Rosalba? Un connubio durato sei anni, gli ultimi due, uno sfacelo. – Che donna quella! Gliel’ho ripetuto non so quante volte: ti ho sposato per vizio professionale,  mi apparisti allora un lampadario Luigi XVI, una specie di Versailles, tutta un rigoglio femminile – E lo era per  davvero  un fiore di beltà a quel tempo, niente di spropositato, sia chiaro, non un’attrice del cinema, Rosalba, ma un gran bel pezzo di figliola, sì, fuor dell’usuale ordinarietà. Ma era tutto qui, e Alfonso non se n’avvide che troppo tardi. Un essere alquanto superficiale, per non dire vuoto, Rosalba, ragioniera presso un’assicurazione, non riuscì loro di legare mai   veramente, se    non    illusoriamente    nei      primi     tempi - Perfino in luna di miele, ricordo, e purtroppo non vi annettei allora nessuna importanza, si palesò per quel che era, quando, per esempio, visitando i saloni del Prado, di fronte a un Velasquez, avendo io insinuato sottilmente, col riso a fior di labbra, che noi due ci saremmo stati a meraviglia ad amoreggiare tra il paesaggio traboccante di quel capolavoro, osservò, come distratta da altri pensieri “ Figurarsi poi amoreggiare  con Humphrey Bogart, non visti, entro una scena da film, a Hollywood! ” La presi per uno scherzo capriccioso e invece… - Invece era proprio di quella pasta lì, uno stupido manichino da vetrina, ma molto, molto seducente. La seduzione di quella Calipso tenne sotto il giogo Alfonso alcuni anni, poi, come destandosi da un lungo sonno, egli tornò in sé e scoppiò il cataclisma, che si protrasse diverso tempo, dilaniando la loro vita domestica. Infine si placò, quando la sua furia scatenata ebbe diviso per sempre i loro destini – Fortuna che non ci si son messi di mezzo rampolli, sennò il guaio sarebbe stato peggiore, più duro da scontare -.
Le cinque. La camera da letto tace, tace ogni cosa. Alfonso si leva dal letto, insopportabili coltri! Alla finestra, dove si porta quasi con la febbre addosso, lo accoglie la sinfonia del cielo stellato, con la grancassa della luna di tre quarti e il basso continuo dell’illuminazione stradale. Gustato quello spettacolo da  sogno, Alfonso  si  trasferisce, non  ne  può  più  di stare lì dentro, nel salotto al piano terra: lì. Affondato nella comoda poltrona di felpa magenta di fronte alle tende di panno della stessa tinta, si sente più a suo agio, rinfrancato, come già prima, dalla visione dell’esterno nello spacco tra le tende, con in più, però la coscienza ritemprante di star lontano dal letto. Cinque e venticinque.
- Tutt’un’altra cosa, Marta. Il rovescio della medaglia. Se fosse il tipo, avrebbe da  invidiarle le grazie fisiche. Ma a lei non mancano; in fondo, è bellina. Media di statura, un visino infantile e angelico, quei suoi occhietti rotondi e luminosi da fiaba, la pelle come lana e alabastro, la capigliatura: lino filato al fuso d’una fata, proprio una statuetta di porcellana, il mio sogno – Un poco esagerava, ma Marta non era, poi da buttare: una personcina aggraziata, non di più, che lui, nel suo trasporto sentimentale, idealizzava lievemente. Più o meno, con qualche abbellimento di troppo, era quella di Alfonso, però la sua descrizione somatica.  Per il resto a lui sembrava, e in buona sostanza era così – un tesoro di spiritualità e umanità, un esempio di qualità individuali, una rarità -, fatta naturalmente salva la sua iperbole raffigurativa di innamorato, la sua tendenza a calcare la mano nel ritratto; perché, infatti Marta era un  tipo con la testa sulle spalle, per giunta o per disgrazia (non saprei dire, stando ai fatti passati e venturi) di ligia osservanza cattolica, quantunque non fosse certo da ritenersi, come egli tra sé vagheggiava, imbambolato dalla sua adorazione affettiva, una donna del Paradiso, un’idea platonica: la realtà era, invero che ella ne aveva di difetti, e molti. Alfonso appoggiò la nuca sullo schienale della poltrona e si mise a fissare il soffitto.                                         
- Mi domando se la fortuna mi ha arriso oppure no, mettendomela sui miei passi. Croce e delizia, macché, suvvia, piacere più che spina del mio cuore, cento volte più gioia. Quando fu la prima volta? – La storia durava da poco più d’un anno e mezzo e aveva scompigliato le loro due vite. La prima volta fu a Elea, la patria di Parmenide, non assai lungi da Salerno. C’era un simposio dal titolo “Bergson e i paradossi eleati”, Marta vi era stata invitata come cultrice apprezzata del pensatore francese e vi portò anche un suo contributo personale in margine alla conferenza, in cui era stato relatore, tra gli altri specialisti in materia un suo ex-professore dell’Università di Pavia;  Alfonso, per parte sua non aveva voluto mancare a un così ghiotto e allettante appuntamento. -  Lì scoccò la scintilla, da cui si levarono le fiamme di quella passione interiore che ancora ci avvolgono. Lei fece subito colpo su di me, mi parve una leggiadra Minerva, no, non solo. A momenti ella, in quel luogo classico, da mito in carne ed ossa si trasformava in simbolo meraviglioso, diventava una lama d’acqua del mare sfolgorante di sciabole di luce accecante, il frammento d’uno specchio investito di chiarore -. Il secondo giorno del congresso l’avvicinò, il terzo ed ultimo fecero un giro insieme tra le antiche rovine di Elea, di rimpetto al mare.
- Lei non crede che la durata, regno dell’intuizione e negata alla coscienza soggettiva sia nient’altro che immobilità, unicità, essere indistruttibile, contrapposta, come tale, al cambiamento, al molteplice e al nulla, che sono la materia e il tempo? – gli chiese convinta, mentre passeggiavano tra quegli avanzi di pietra della storia. Alfonso, conoscitore anche lui dell’opera bergsoniana, nonché estimatore di quella, - No - ribatté – l’essere della durata non è lo stesso della scuola eleatica. E’ qualcosa di più, è azione  incessante, che  proprio nella stasi parmenidea trova il suo limite e caduta. In esso quiete e moto si unificano, sono indifferenziati, esso è mobilità immobile. L’αρχή eleate era incompatibile con il movimento, ridotto a ingannevole parvenza della doxa -
La graziosa accompagnatrice reagì prontamente, lei che identificava lo spirito dell’essort vitale con il Dio dei cattolici – Nient’affatto, l’attività è intrinseca all’essere, fa parte della sua natura, è dunque immobilità e stasi. E’ inconcepibile un principio della realtà che sia mutevole, una verità che cambi pelle. L’atto intuitivo ci riconcilia pienamente con le tesi eleatiche sul moto. In esso è vero, e non paradosso che la freccia in volo rimane ferma e che Achille, correndo, non giungerà mai alla tartaruga che avanza. L’essere di Zenone è quello di cui parla Bergson e quello che Valéry ha saputo cogliere – Il gentile cavaliere, a quel tempo già divorziato, insisté sulla sua idea – Non mi fraintenda, dottoressa Renosto. Io non metto in discussione la sua competenza culturale. Mi consentirà, però di divergere da lei su questo punto. Del resto, anche tra gli insigni conferenzieri, che abbiamo udito avvicendarsi a questo congresso, non c’è unanimità di vedute a tal proposito. Bergson, secondo me, nell’essort vitale, fa risiedere insieme lo stabile e l’instabile, razionalismo e sensibilità, metafisica e scientismo. Il momento intuitivo, come coscienza soggettiva, è il punto di arrivo, la sintesi e la conciliazione tra quello estemporaneo e variabile dell’istinto e quello della costanza oggettiva e legislativa dell’intelletto, che va in cerca del numero, della norma nei fatti dell’esperienza. Il filosofo che si basa  su quella prima facoltà della mente, comprensiva delle altre due, media contemporaneamente, d’un  sol  colpo la contingente momentaneità di un atto come l’aver fame o un’abitudine come il mangiare, il camminare dell’uomo ignorante, con la pretesa fissità e intangibilità di una legge della biologia o della geologia, propria della mentalità dello scienziato -.
Marta lasciò dire, come sua regola nella conversazione, specie se a sfondo meditativo e intellettuale come adesso. Ma, quando il suo accompagnatore   ebbe   finito  non mancò di eccepire – Il suo discorso è giusto formalmente, però rientra nel mio. Il movimento è un attributo consustanziale all’essere, che è per sua definizione eternamente in quiete: da esso origina, attraverso quella sua facoltà apparentemente contraddittoria tutto il mondo sensibile, la storia naturale e quella civile. Le altre due facoltà dello spirito, connesse e subordinate alla principale sono quelle che lei ha testé brillantemente illustrato. Vede, quindi, se ha seguito il filo del mio discorso, che io, e non lei sono nel giusto -. Quell’ultima frase fu accolta con un sorriso dall’interlocutore, che così si espresse – Immagino che lei, da buona spiritualista riconosca all’uomo la piena e integrale libertà. Me la conceda, allora, la prego, nel discostarmi da lei su questo tema dell’eleatismo in Bergson-.
Continuarono a discettare sull’impegnativo problema, aggirandosi tra quei ruderi millenari in quel tardo pomeriggio dei primi di giugno, sotto i raggi già infuocati che incombevano sui loro corpi piacevolmente accaldati, fino all’ora che quei dardi dal gagliardo tepore si avviarono ad affievolirsi, per divenire alla fine dei blandi riflessi di una lente di vetro prima aurea quindi rutilante, e poi spegnersi sotto la linea dell’orizzonte, tuffandosi nell’acqua del mare. Promisero, nell’accomiatarsi quella sera per far ritorno ai rispettivi alberghi, di rivedersi ancora e si scambiarono gli indirizzi. E la promessa fu mantenuta in diverse circostanze da allora, a cominciare da quell’estate stessa, in cui lei venne a trascorrere un periodo di vacanze al sud, ad Amalfi. In altre occorrenze fu lui a salire nella città di lei, o si ritrovarono a mezza strada, a Firenze, a Roma e una volta anche all’estero, a Salisburgo, per un concerto  mozartiano.

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SECCHEZZA DI FONTE
Le voci deserte, non altre, lungi,
d’un paesaggio invernale in campagna,
magari una Renault, l’osso d’un cane.
.…………….
……………...
E alla festa di S. Elia, a passeggio
tra le baracche e i megafoni, il vomito
cui invita un fosco tempo, le vertigini.
 
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IN CONCLUSIONE
Molte volte già assistemmo al ritorno
della lucertola ed udimmo il fischio
del rapido, molte applaudimmo al giorno
del compleanno ed appendemmo il vischio.
Fiorì altrettante il giglio a giugno e uscì
il transatlantico dal porto, i vandali
violarono atroci ancora i nostri usci.
Mai, però che il libro dei nostri annali
privati non fosse come mai scritto,
mai esistito il nostro diario costante,
che dalle nostre tarantelle il fiato
tuo e il suo morso d’iena svanì cocente.
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FIRMATO ALLOCCA
  
Oserei dire alba, senonchè il fuoco,
ardendo tra tenebre, arrossa il muro
e piomba dalla rupe in alto il falco.
Eppure il vento giammai spegne il cero,
l’onda risale e crolla sulla riva.
Quando poi su estivi cuori la neve
cadesse perenne, vuota ogni stiva,
per sempre lieto chiudere la chiave.
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DEL PESSIMISMO GRATUITO
Buondì: pratiche: firme, e tutto
è come un viaggio arioso in autostrada.
Ma se ristagna nella pozza l’acqua
e il vessillo sta sull’asta afflosciato,
notte illune e senza luci è al passante
e nel legno gira a vuoto la vite.
Poi, mentre che scade il tempo, acqua
fa la barca incatramata ed affonda.
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ALTRE BUGIE 
 
Dove tamburi e buccine fan ressa
e ogni tinta è accesa di fuoco agli occhi,
via Nolana pare acquario di pesce;
e almeno un’eco risuonasse in cuore
tra questi ferri contorti di ruggine,
le rose sfiorite al vento disperse,
le nuvole appese al monte Araràt
e neve che cade sull’anima, o ira.
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I GIRADISCHI ECCETERA
L’Iliade che scrivemmo
ci vide protagonisti in una storia
da poliziesco insulsa
 quanto la bolletta del telefono, aria
familiare e viziata sopra i nostri
appuntamenti da brivido, sopra
il thriller mozzafiato
che vivemmo. Domestico anche il the end,
tra pianti di cari, corone e mesti
telegrammi per l’estremo addio. E’ tutto.
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………………..
Di te, oltre ai fuochi scialbi
che t’incendiavano la testa e al calmo
tuo passo sui giorni così comuni
del nostro calendario,
giocato sui dadi rocamboleschi
di normale amministrazione, al verde
mercoledì di Pasqua
tra i campi, dove, orrore, ci perdemmo,
all’elefante d’agata
made in China di seconda mano, esile,
che si ruppe nel tuo salotto in felpa
cremisi, che mai fu
il mio, come il tuo indirizzo e la sorte,
mi accompagna il volume
pieno del giradischi,
che da S.Angelo, lassù orchestrava
alla valle, a te disperatamente
pia, a me?, al silenzio freddo
la canzone dei Magi, nella nebbia.
 
Henry Matisse - La famiglia del pittore