L’ULTIMO ALLOCCA
L’evoluzione artistica di Gerardo Allocca, titolare di questo blog, tra l'inspiegabile silenzio della cultura ufficiale, faziosa e arroccata in cricche impenetrabili e grette a qualunque novità, oltre che mosse principalmente dal personalismo e non dal culto delle lettere, è proseguita nel
tempo in campo narrativo e poetico ed ha maturato nuove soluzioni e
manifestazioni, di cui qui appresso offriamo qualche esempio. Ulteriori sviluppi e aggiornamenti saranno presi in considerazione in seguito.
L’UOMO DI GRENOBLE
Io,
che non sarei rimasto più di un’ora, mi ci sarebbe mancata l’aria, in città
come Milano o Roma o Torino o Venezia, avrei passato la vita a Parigi o
Marsiglia o Lione, come un pesce in mare. Fu per me naturale, allora, non
appena me ne si offrì l’occasione, di fare l’ennesima sortita laggiù.
Approfittando
di una feria dal mio servizio di interprete presso una ditta francese di
import-export operante a Napoli e in Campania, senza indugi mi misi per strada
dal mio comune di nome Saviano a due passi dalla cittadina di Nola, e in
poche ore ero al di là delle Alpi. Decisi di girare questa volta per la Savoia
e il Rodano e feci subito tappa a Lione. Mi fermai in un hotel già di mia
conoscenza e lì, a mio agio, mi dilettai nella lettura, o meglio, rilettura
di Sthendal.
Era mia
intenzione di scaricare i nervi e, una volta riuscitovi, ripartire per casa.
Non era il caso di compiere un’esplorazione della città, dato che c’ero già
stato in tour e per lavoro diverse volte. Piuttosto mi attraeva la prospettiva
di rivivere quei luoghi, quell’aria a me noti, riscoprire le stesse gradite
impressioni già assaporate.
A Parigi, per
esempio avevo soggiornato in passato per più di un anno e vi ero
ritornato poi altre cento volte, sicché, pratico alla perfezione del francese,
potevo ben affermare di essere di casa da quelle parti. Lione, come
Marsiglia e Tolosa, era una delle mète a me preferite nelle mie escursioni
transalpine, e presentava tutto l’inimitabile che rivestiva ai miei occhi ogni
scappata in terra francese.
Grenoble no,
faceva eccezione, non ci avevo mai messo piede e contavo, non appena possibile,
di raggiungerla: quel paesaggio montano non lungi dalla regione un tempo feudo
della casa Savoia era una grave lacuna nelle mie esperienze e costituiva per me
quasi un punto d’onore doverla colmare.
Già che da
Lione non era, credevo, molto distante, mi saltò in mente di provarci proprio
quella volta, da lì a Grenoble non doveva essere molto lungo, mi ripetei.
Grenoble, dunque, a tre ore dal mio arrivo e sistemazione in quel mio albergo
lionese, s’impose di prepotenza nei miei progetti immediati.
Uscii così dalla
mia stanza con il proposito di raccogliere informazioni sull’itinerario da
seguire per giungere a quella mia destinazione. Ricevutele, stabilii di partire
la mattina appresso, sul tardi, con comodo.
Avvenne che in
viaggio (ero un abile guidatore e avevo da poco acquistato quella Renault di
ottime prestazioni), la strada s’inerpicava già isolata tra le vette e allora
fui quasi sopraffatto da un’incomprensibile angoscia, io che, vengo appena dal
dirlo, ero esperto nella guida e disponevo di un veicolo sicuro, dunque non
avevo nulla da temere. Sentivo come il presentimento di un pericolo, ecco; di
lì a una mezz’ora, infatti, il mio sentore si avverò. Inaspettatamente, visto
che si era ad aprile e la primavera era in corso, cominciò a nevicare ed i
fiocchi erano così spessi, pesanti e fitti che non tardarono molto ad
ammassarsi e la coltre nevosa ricopriva già tutto il circostante. Proseguii,
nonostante qualcosa mi consigliasse di fare marcia indietro; oppresso
interiormente, venne il momento che mi trovai nel bel mezzo di una tormenta di
neve, con la strada (mi avevano consigliato una scorciatoia, meno trafficata,
ma più suggestiva quanto ripida e scomoda) che divenne presto impercorribile
per via di un consistente manto di neve che bloccava il cammino.
Mi vidi perso,
paralizzato vuoi materialmente per il maltempo vuoi psicologicamente per uno
spavento crescente, stavolta più giustificato di prima. Subito mi venne l’idea
di fare dietrofront, ma constatai essere un partito ormai impraticabile,
intempestivo e tardivo: all’indietro la marcia era ugualmente che in avanti
impedita dall’accumulo di neve.
Presi a
sconfortarmi, non mi era mai successo di trovarmi così da solo in simili peste.
L’avevo voluto io, mi dissi, avevo inteso seguire una strada più breve e di
maggiore attrattiva, ma ora ero lì, isolato, in quel grave imbarazzo. Provai a
scendere dall’auto e immediatamente affondai i piedi in uno spesso tappeto di
neve: lì accanto non scorsi anima viva, né abitazioni fin dove poteva giungere
il mio occhio, il che finì di avvilirmi e farmi perdere d’animo. Perfino il
telefonino che avevo con me era fuori uso, purtroppo scarico, e maledissi la
mia imprevidenza.
Che rimanessi
bloccato in quel luogo per troppo tempo e forse, senza soccorso, non potessi
uscirne vivo? Benché senz’altro esagerato, quel timore si fece largo in me. Se
la tormenta fosse durata ancora e nessuno fosse passato in mio aiuto di là, in
quella strada appartata e solitaria, un itinerario alternativo praticato
sporadicamente e già in quota tra le montagne, sicché c’era da paventare che
non sarebbero stati inviati colà dei mezzi per liberare la strada, allora che
sarebbe stato di me, affogato e spaesato in quel mare di neve e ghiaccio, che
ricopriva i versanti montuosi sulla sommità? Il freddo iniziò per giunta a
farmi tremare, anche perché il mio abbigliamento non era dei più invernali, mai
e poi mai avrei immaginato di quel periodo un tempo simile. Avventurarmi a
piedi in quella solitudine e in quel gelo? Lo esclusi e mi rassegnai a
riprendere posto nella vettura, confidando che o smettesse di nevicare e la
neve presto si sciogliesse o venissero a sgomberare quella strada fuori mano, dove
pure era difficile giungessero soccorsi rapidamente.
Passai in tal
modo un brutto quarto d’ora, uno dei più penosi della mia vita, in cui la morsa
dell’inquietudine e dello scoramento toccò punte per me estreme. Ero, chi sa
come, dato il mio carattere piuttosto forte, allo sfinimento della mia
resistenza nervosa; distinsi, allora in quel deserto bianco qualcuno che,
camminando tra la neve, mi si approssimava. In breve mi raggiunse e mi lasciò
intendere che desiderava salire in macchina.
Non indugiai ad
aprirgli lo sportello e fargli posto accanto a me. Era una persona dalla
fisionomia comunissima, vestiva un giaccone color cioccolata su un paio di
calzoni avorio, scarpe robuste, una camicia di fustagno a quadroni, lo sguardo
quieto e luminoso, che ispirava fiducia. Dichiarò innocentemente al di sopra di
quelle sue larghe spalle di essere di Grenoble e di esservi diretto, la città
era dietro l’angolo, sicché avrebbe fatto la strada a piedi, di ritorno da una
passeggiata nei paraggi, se non mi avesse incontrato.
Per me, che mi
credevo smarrito in chi sa quale posto remoto, fu un’autentica sorpresa
l’apprendere che Grenoble era lì vicino, tanto da poterci arrivare a piedi.
Fatto sta che ai miei occhi s’accampavano solo neve, alberi e montagne. – Vede,
io mi sono avvicinato a lei, sol perché ho notato che era in difficoltà, sennò
le ripeto che avrei fatto la strada a piedi fino a Grenoble per fatti miei. Non
la scorge, la città laggiù, saranno sì e no un paio di chilometri, vede dove
indico, là, solo un cieco non la distinguerebbe? –
Continuai a non
vedere niente, ma tacqui per non contrariare quel signore così gentile verso di
me, che mi sarebbe potuto senza meno tornare utile in quel frangente. Quello
riprese – Senta, lo so. Lei Grenoble non la vede, lo indovino dal suo viso. Ma
mi dica che cosa distingue, allora? - . Gli dissi allora, aprendo il mio animo,
tutta la verità, del mio viaggio, del mio presente, del mio sgomento mortale
per quella avventura capitatami tra le montagne.
Ci rise sopra e
spiegò – Ma quale bufera di neve, quale strada impraticabile! Lei vaneggia! Lei
di fronte non ha niente, ha la via libera e Grenoble è proprio sotto il suo
naso! -.
Cominciai a
sentirmi ancora peggio, quell’uomo doveva essere ammattito o ammattito
ero io. Eravamo nel bel mezzo della tempesta di neve e non potevo andare né
avanti né indietro con l’autovettura e lui diceva che non era vero niente, che
avevo le traveggole. Che avesse ragione? Tacqui ancora una volta, non sapendo
che fare.
Lui riattaccò –
Non mi crede, glielo leggo in faccia. Le dirò allora di più: lei giudica che io
sia fuori di testa, ma ad esserlo è lei, invece. No, badi! Non voglio
significare che lei abbia smarrito il senno, affatto! Lei è solo avvelenato dal
mondo, non ci vede più e si crea delle paralisi interiori, ha la coscienza
malata, tutto qui –.
Ci capivo
ancora poco, ma il discorso m’incuriosiva, quel tale non aveva tutti i torti.
Lo seguii interessato vivamente, mentre chiariva il suo pensiero. – Lei è uno
dei tanti che hanno perso la bussola. Vivono nella normalità, ma sono fuori
della realtà. Non sanno più qual è il sud o l’est. Per questo lei scorge
tormente di neve e interruzioni della circolazione dove non ci sono. Deve
mettere ordine dentro di sé, far luce nel suo io, che è nelle tenebre -.
Più parlava e
più mi elettrizzava, c’era nel suo parlare un fondo di verità, che mi toccava
in profondo, ma che non coglievo tuttavia a tutto tondo, anzi
nemmeno vagamente. Disse ancora - Ammetto che questa è un’epoca dove metter
ordine nella mente è proibitivo. Proprio questo lei deve comprendere e
ammettere il disordine per fare ordine. Bisogna che lei esamini a dovere la sua
cultura. Scruti nel cuore degli autori che ha letto, si convinca essere dalla
somma dei loro pensieri, che hanno fatto questo secolo corrente, a scaturire la
soluzione ai suoi mali, l’unica accessibile oggi. Capirà che è sui contributi
intellettuali dei libri di cui ha fatto esperienza, quelli dei pensatori-chiave
della nostra attualità, proprio su di essi deve far leva per affrontare senza
patemi e veli la realtà nella sua autenticità. Il mondo le apparirà, è vero,
frantumato, spezzato, come pure il suo io, fatto di cento punti di vista
divergenti, ma sappia che è l’unico mondo e l’unico io di cui può disporre e prenderne
coscienza per lei sarà salutare -.
Pensai alla mia
biblioteca di pensatori contemporanei, dai neopositivisti agli esistenzialisti,
dai neotomisti e modernisti agli idealisti, dai pragmatisti alle religioni
orientali e alle utopie socialiste, compresi i nichilisti e gli agnostici e
naturalmente i marxisti in tutte le salse e gli psicanalisti, e vidi chiaro.
Afferrai ciò che lo sconosciuto voleva palesarmi e credetti che avesse colto
nel segno, che aveva centrato il mio malessere e suggerito l’unico antidoto.
Fui come risollevato, mi si aprì un varco nella mente, una prospettiva di vita
e sicurezza mi si figurò, mi arrideva il futuro.
Spinsi
sull’acceleratore della Renault e magicamente la vettura procedeva, nessun
ostacolo si frapponeva alla marcia. Scorsi Grenoble a portata di mano; in poco,
con la carreggiata completamente libera davanti a noi, facemmo il nostro
ingresso nella città alpina.
Percorsa che
avemmo appena qualche strada cittadina, l’uomo chiese di scendere, era giunto a
destinazione. Prima di farlo, mi mise sull’avviso – Stia in guardia, ci saranno
nella sua vita sicuramente altre tormente di neve ed altri infortuni come oggi.
E’ inevitabile. Noi traballiamo continuamente nella nostra epoca, viviamo nella
precarietà e siamo soggetti a su e giù continui, con altalene tra tante Scilla
e Cariddi. Quando le succederà di nuovo di ripiombare nella tormenta di
quest’oggi, ripensi alle mie parole e così andrà avanti fino alla prossima
crisi. Non ci sono cure definitive, sa, e le ricadute sono immancabili -.
Senza darmi il tempo di replicare, a me che
avrei voluto trattenerlo per discutere ulteriormente e avere con lui qualche
altro scambio di vedute, si allontanò, sparendo ai miei occhi. Non mi restava
che proseguire nel mio tour: Grenoble era bella.
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PURTROPPO
Ci dovevano essere panorami
dal terrazzo e profumi dal giardino,
chitarre sotto i portici e catrami
sigillare velieri al sole, l’organo
suonare in cattedrale, alte fontane
slanciare spruzzi tra cortili dorati.
Purtroppo in via miagolò il gatto e venne
dal nord la tramontana, nodi forti
strinsero le corde, poi gli ascensori
salirono e scesero, sia tram che autobus
fecero la loro corsa, gli allori
furono piantati, il treno fu un omnibus.
Al supermercato tutta la merce
fu esposta sugli scaffali, arse il fuoco
vandalo nel foro e di quella voce
al telefono non restò che l’eco.