martedì 1 ottobre 2013


L’AUTORE  FANTASMA


Claude Monet - Soleil levant
 

Può un autore letterario rappresentare per tanti una pietra miliare nel genere narrativo e per tanti altri essere una nullità, che assolutamente va ignorata e che, a prenderlo in considerazione, ti attira addosso la taccia di razzista e traditore?
Se questo autore è Louis Ferdinand Déstouches, in arte Céline, è possibile. Una carriera letteraria, la sua, stroncata sul nascere a causa principalmente di un libello, Bagattelle per un massacro, in cui prendeva partito a favore dell'antisemitismo e poi per essere stato a fianco dei collaborazionisti del maresciallo Petain, al tempo dell'occupazione nazista della Francia, manifestando perciò tendenze della destra estrema (quando poi lui si è talora dichiarato anarchico, il che è una netta contraddizione). Fu Sartre soprattutto, pare, a decretarne l'emarginazione letteraria dai circoli che contavano nel dopoguerra. Ma per molti Céline è un mito letterario. Addirittura in molti libri scolastici questo autore è assente, come non esistesse. Ricordo che anch'io a suo tempo, quando ero studente ginnasiale e studiavo gli autori francesi, non ebbi mai modo d'incontrarlo tra i contemporanei, come non esisteva sui testi scolastici il nome di Huysmans, e sia l'uno che l'altro li ho trovati sulla mia strada molto tempo dopo.
Dunque, Céline un autore fantasma, che per molti rappresenta un genio e dunque esiste fin troppo, ma per altri è assolutamente insignificante: un pò come il sole che fa capolino in una giornata nuvolosa. Ora, ci chiediamo: può l'arte e la letteratura essere un valore dipendente da motivazioni politiche o posizioni e atteggiamenti sociali o ne è indipendente? Certamente, se una cosa è bella, sarà sempre bella, qualunque ne sia la fonte, anche cioè se è contraria alle nostre idee (si dia ascolto, per esempio, al brano di Wagner in chiusura di questo post. Il direttore è Furtwangler, da molti ritenuto un filonazista. Ebbene, si veda se è possibile contestare un'interpretazione musicale del genere). Dunque, il valore artistico, pur potendo essere influenzato da fattori di natura non artistica, è relativamente avulso da considerazioni estranee ad esso.
E allora, pare mai concepibile che un autore debba subire l'ostracismo, sol perchè aveva idee diverse dalle nostre? Lo si potrà criticare per esse, ma non si potrà mettere in discussione il merito artistico dei suoi lavori. Fatto sta che Céline visse, grazie probabilmente a un campione dei clan letterari, come Jean Paul Sartre, gran parte della sua vita in solitudine e privo di riconoscimenti culturali ed economici per la sua opera e così anche morì, a Meudon, fuori Parigi. Queste cose sanno molto di oscurantismo medievale e di inquisizione, di tempi in cui si ponevano all'indice libri contrari all'autorità ecclesiastica. Fa meraviglia che sia accaduto nella civile e spregiudicata Francia e, in particolare, che se ne siano resi responsabili uomini come Sartre, che si è sempre presentato come una bandiera della libertà intellettuale. Ma, tant'è, l'Italia (che ha una lunga tradizione di autoritarismo fascista) non ha niente da imparare in questo campo, visto che in essa le motivazioni per le esclusioni pubbliche di un autore spesso non provengono nemmeno da idee politiche o sociali, ma addirittura dalle simpatie personali di clan letterari ed editoriali.
A questo punto, occorre esaminare da presso gli scritti di Céline, per stabilire o i suoi pregi letterari o i suoi difetti, in modo da decidere con un giudizio di ordine prettamente aritistico se meriti di essere acquisito o no, e senza condizioni di altra sorta, nel campo degli autori degni di considerazione.
Prendiamo, a titolo di esempio le ultime pagine di Viaggio al termine della notte, che molti giudicano il suo capolavoro.
 
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Ha trovato il modo di mandare a cercare qualcuno al posto di polizia.
Per l'appunto era Gustave, il nostro Gustave, che era di piantone dietro al suo traffico.
«Ecco, ancora una disgrazia!» ha fatto Gustave com'è entrato nella stanza e ha visto.E poi s'è seduto a fianco per rifiatare un po' e farsi un bicchiere al tavolo degli infermieri che non era ancora sparecchiato. «Poiché è un delitto sarebbe meglio portarlo al posto di guardia» ha proposto lui e ha osservato ancora: «Era un bravo ragazzo Robinson, non avrebbe fatto del male a una mosca.
Mi chiedo perché lei l'ha ucciso?...» E ha bevuto di nuovo
Non avrebbe dovuto.
Sopportava male il bicchiere.
Ma a lui piaceva la bottiglia.
Era il suo debole.
Siamo andati a cercare una barella di sopra, con lui, in magazzino.
Era molto tardi adesso per disturbare il personale, decidemmo di trasportare noi stessi il corpo fino al posto di guardia.
Il posto era lontano dall'altro lato del paese, vicino al passaggio a livello, l'ultima casa.
Così ci mettemmo in marcia.
Parapine teneva il davanti della barella.
Gustave Mandamour dall'altro capo.
Solo che non andavano molto diritto né l'uno né l'altro.
C'è stato bisogno che Sophie li guidasse un po' per la discesa della scalinata.
Notai in quel momento che non aveva l'aria molto scossa Sophie.
Quello però era capitato vicinissimo a lei, così vicino che lei avrebbe potuto prendersi bene una delle pallottole mentre sparava quell'altra folle.
Ma Sophie, l'avevo già notato in altre circostanze, le ci voleva del tempo per ingranare con le emozioni.
Non che lei era fredda, perché la prendeva piuttosto come una tormenta, ma le ci voleva del tempo.
Volevo seguirli ancora un pezzetto col corpo per essere proprio certo che tutto era davvero finito.
Ma invece di seguirli con la loro barella come avrei dovuto deambulavo piuttosto da destra a sinistra tutto lungo la strada e poi finalmente una volta passata la grande scuola che costeggia il passaggio a livello mi sono defilato per un sentiero che scende prima tra le siepi e poi precipita verso la Senna.
Da sopra i cancelli li ho visti allontanarsi con la loro lettiga, andavano come a soffocarsi tra sciarpe di nebbia che s'annodavano lentamente dietro di loro.
Sulla banchina l'acqua batteva forte sulle chiatte ben raccolte contro la piena.
Dalla piana di Gennevilliers arrivava ancora un sacco di freddo a folate tese sui risucchi del fiume fino a farlo brillare tra le arcate.
Laggiù, lontano lontano, c'era il mare.
Ma non avevo più niente da immaginare io sul mare adesso.
Avevo altro da fare.
Avevo un bel cercare di perdermi per non ritrovarmi più davanti la mia vita, la ritrovavo
dappertutto semplicemente.
Ritornavo su me stesso.
Il mio stramballamento personale, era proprio finito.
Sotto gli altri!...
Il mondo era rinchiuso! In fondo com'eravamo arrivati noialtri!...
Come alla fiera!...
Avere dei dispiaceri non è tutto, bisognerebbe poter ricominciare la musica, andarne a cercare ancora di dispiaceri...Ma sotto gli altri!...
E' la giovinezza che uno rivorrebbe così senza averne l'aria...
Senza imbarazzi!...
Intanto per tirarla ancora avanti non ero più nemmeno pronto!...
E tuttavia non ero nemmeno andato tanto lontano come Robinson io nella vita!...
Non ce l'avevo fatta in definitiva.
Non avevo acquisito io una sola idea bella solida come quella che lui aveva avuto per farsi
stendere.
Un'idea più grossa ancora della mia grossa testa, più grossa di tutta la paura che c'era dentro, una bella idea, magnifica e comodissima per morire...
Quante me ne servirebbero a me di vite perché mi facessi un'idea più forte di tutto al mondo? Era impossibile dire! Era andata buca! Le idee che avevo io gironzolavano piuttosto nella mia testa con un sacco di spazio intorno, erano come delle candeline dimesse e vacillanti che se ne stanno a
tremolare tutta la vita nel mezzo d'uno spaventoso universo proprio orribile...
Andava forse un po' meglio qualcosa come vent'anni fa, non si poteva dire che non avevo fatto degli abbozzi di progresso ma insomma non si poteva prevedere che riuscissi mai io, come Robinson, a riempirmi la testa con una sola idea, ma allora una pensata superba assolutamente più forte della morte, e arrivassi solo con la mia idea a sprizzare dappertutto piacere, spensieratezza e coraggio.
Un eroe coi fiocchi.
Pieno fin qui sarei allora stato io di coraggio.
Mi uscirebbe perfino da ogni parte il coraggio e la vita anche lei non sarebbe altro che un'intera idea di coraggio che farebbe marciare tutto, gli uomini e le cose dalla Terra al Cielo.
Di amore ce ne sarebbe talmente, nella stessa occasione, per sovrammercato, che la Morte ci resterebbe chiusa dentro con la tenerezza e così in profondità, così calda che ci godrebbe alla fine la troia, che finirebbe per divertirsi con l'amore anche lei come tutti quanti.
E questo che sarebbe bello! Che sarebbe indovinato! Me la ridacchiavo da solo sulla banchina pensando a tutto quello che avrei dovuto fare io in fatto di trucchi e truschini per arrivare a farmi gonfiare di una risolutezza senza fine...
Un vero rospo dell'ideale! La febbre, in fin dei conti.
Da un'ora almeno gli amici stavano a cercarmi! Specie dal momento che avevano visto bene che mollandoli non ero niente brillante...
E Gustave Mandamour che m'ha trovato per primo sotto il mio lampione a gas. «Ehi Dottore!» m'ha chiamato lui.
Si poteva dire che aveva una voce dell'accidenti Mandamour. «Di qui! La vogliono dal
Commissario! Per la sua deposizione!» « Lo sa Dottore... ha aggiunto lui, ma stavolta
nell'orecchio, non ha mica una buona cera!» M'ha accompagnato.
M'ha perfino tenuto su per camminare.
Mi voleva proprio bene Gustave.
Non gli facevo mai dei rimproveri io, sul bere.
Capivo tutto, io.
Mentre Parapine, lui era un po' severo.
Lo faceva sentire colpevole di quando in quando a proposito del bere.
Avrebbe fatto un sacco di cose per me Gustave.
M'ammirava perfino.
Me l'ha detto.
Lui non sapeva perché.
Io nemmeno.
Ma lui mi ammirava.
Era il solo.
Abbiamo girato per due o tre strade insieme fino a che abbiamo scorto la lanterna del posto di guardia.
Non ci si poteva più perdere.
Era il rapporto da fare che lo tormentava Gustave.
Lui non osava dirmelo.
Aveva già fatto firmare tutti in fondo al rapporto, ma comunque ci mancava ancora un sacco di cose nel suo rapporto.
Aveva una grossa testa Gustave del mio tipo, e potevo perfino mettermi il suo chepì, è tutto dire, ma dimenticava facilmente i dettagli.
Le idee non gli venivano facilmente, faceva fatica a esprimersi e ancora di più a scrivere.
Parapine l'avrebbe anche aiutato a redigerlo ma non aveva visto niente delle circostanze del dramma, Parapine.
Avrebbe dovuto inventare e il Commissario non voleva che si inventi nei rapporti, voleva soltanto la verità come diceva lui.
Salendo la piccola scalinata del posto di guardia, battevo i denti.
Non potevo raccontargli granché nemmeno io al Commissario, stavo davvero poco bene.
Il corpo di Robinson, l'avevano messo lì, davanti alle file dei grandi classificatori della Prefettura.
Graffiti dappertutto intorno alle panche e vecchie cicche, «Morte ai pulotti» non cancellati bene.
«Si è perduto Dottore?» m'ha domandato il segretario, molto cordiale d'altronde, quando alla fine arrivai.
Eravamo tutti così stanchi, che abbiamo tutti farfugliato la nostra parte, un po'.
Alla fine, s'è raggiunto un accordo sui termini e le traiettorie delle pallottole, una perfino che s'era incastrata nella colonna vertebrale.
La si trovava mica.
L'avremmo sepolto con quella.
Si cercavano le altre.
Piantate nel taxi che erano le altre.
Era una rivoltella potente.
Sophie è venuta a raggiungerci, era andata a cercare il mio soprabito.
M'abbracciava e si stringeva contro di me, come se dovessi morire a mia volta o magari involarmi.
«Ma non me ne vado mica! mi accanivo a ripeterle.
Me ne vado mica dài Sophie!» Non si riusciva a calmarla.
Ci siamo persi in discussioni intorno alla barella col segretario del commissario che ne aveva viste di ben altre, come lui diceva, di delitti e non delitti e catastrofi perfino e voleva anche raccontarci a tutti le sue esperienze in una volta sola.
Non osavamo più andarcene per non offenderlo.
Era troppo gentile.
Gli faceva piacere parlare per una volta con della gente istruita, non con delle canaglie.
Per non urtarlo dunque, la tiravamo di lungo nella sua postazione.
Parapine non aveva impermeabile.
A Gustave lo stare ad ascoltarci gli cullava il cervello.
Ci guardava a bocca aperta e la grossa nuca tesa come se tirasse su una vettura.
Non avevo mai sentito Parapine dire tante parole da un sacco d'anni, dal tempo dei miei studi, a dire il vero.
Tutto quello che era appena capitato quel giorno, lo stordiva.
Ci decidemmo comunque a ritornare a casa.
Mandamour l'abbiamo portato con noi e anche Sophie che mi stringeva ancora di quando in quando e ne aveva pieno il corpo di forze d'inquietudine e di tenerezza, e pieno il cuore anche, dovunque, di quella buona.
Ne ero pieno io della sua forza.
Questo m'imbarazzava, non era forza mia ed era della mia che avevo bisogno per poter morire magnificamente un giorno, come Léon.
Non avevo tempo da perdere in smancerie.
Al lavoro! mi dicevo io.
Ma quella non veniva.
Lei non ha neanche voluto che mi giri per andare a guardarlo una volta ancora il cadavere.
Me ne sono andato dunque, senza girarmi. «Chiudere la porta» c'era scritto.
Parapine aveva sete poi.
Dal parlare senza dubbio.
Dal troppo parlare per lui.
Passando davanti al baretto del canale, abbiamo picchiato alle imposte per un bel po'.
Quello mi faceva ricordare la strada di Noirceur durante la guerra.
La stessa lucina sopra la porta sul punto di spegnersi.
Alla fine, il padrone è venuto, in persona, per aprirci.
Non era al corrente.
Siamo noi che l'abbiamo informato di tutto e della notizia del dramma insieme. «Un dramma dell'amore» lo chiamava Gustave.
L'osteria del canale apriva giusto prima dell'alba per i battellieri.
La chiusa cominciava a ruotare lentamente verso la fine della notte.
E poi è tutto il paesaggio che si rianima e si mette a lavorare.
Gli argini si separano lentamente dal fiume, s'alzano, si stagliano ai due lati dell'acqua.
Il lavoro emerge dall'ombra.
Si ricomincia a vedere tutto, tutto semplice, tutto duro.
Gli argani qui, le palizzate dei cantieri laggiù e lontano sopra la strada ecco che tornano da più lontano ancora gli uomini.
Si infiltrano nella luce sporca a gruppetti intirizziti.
Si riempiono di luce tutto il volto per cominciare passando davanti all'aurora.
Vanno più lontano.
Si vede bene di loro solo i volti pallidi e semplici; il resto appartiene ancora alla notte.
Bisognerà pure che muoiano tutti un giorno anche loro.
Com'è che faranno? Salgono verso il ponte.
Dopo, spariscono poco a poco nella pianura e ne vengono sempre altri, di uomini, ancora più pallidi, via via che la luce sale dappertutto.
A cos'è che loro pensano? L'osteria voleva sapere tutto del dramma, delle circostanze, che gli si raccontasse tutto.
Vaudescal, si chiamava il padrone, un tipo del nord molto pulito.
Gustave allora gliene ha raccontato parecchio e anche qualcosa di più.
Ci stava a ripetere le circostanze Gustave, eppure non era quello che era importante; ci si
riperdeva già tra le parole.
E poi, dal momento che era sbronzo, ricominciava.
Solo che là veramente non aveva più niente da dire, niente.
L'avrei anche ascoltato lo stesso ancora un po', pian piano, come in sonno, ma allora ecco gli altri che lo contestano e quello lo fa arrabbiare parecchio.
Dal furore, va a sparare una gran botta sulla stufetta.
Tutto crolla, tutto si rovescia: il tubo, la griglia e i carboni ardenti.
Era un forzuto, Mandamour, ne faceva quattro.
S'è messo, in più, a volerci far vedere l'autentica danza del Fuoco! Levarsi le scarpe e zompare in pieno sui tizzoni.
Col padrone, avevano avuto insieme una storia per una macchina mangiasoldi non punzonata...
Era uno subdolo, Vaudescal; non bisognava fidarsi, con le sue camicie sempre troppo pulite perché lui fosse del tutto onesto.
Un astioso e un delatore.
Ce n'è pieno per le banchine.
Parapine gli è venuto il dubbio che quello lo provocava Mandamour, per farlo trasferire,
approfittando che aveva bevuto.
Glielo ha impedito, lui, di farla, la sua danza del Fuoco e l'ha sgridato.
L'abbiamo ricacciato Mandamour in fondo al tavolo.
Lui è crollato là, finalmente, bello tranquillo, tra enormi sospiri e gli odori.
Ha dormito.
Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un'arcata, un'altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano...
Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più. 

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Che dire? E' un po’ l'opposto della prosa proustiana, nella sua telegraficità e rudezza. Non fosse per questo suo carattere di immediatezza e  concisione, ricorderebbe da vicino Emile Zola, ma in più, a marcare il confine con il caposcuola del naturalismo, vi è in Céline anche un cinismo di fondo sulla realtà umana, che è assente nell’altro, fondato sui valori della emergente classe operaia.
Qua e là s’incontrano anche  luoghi di grande suggestione descrittiva, che colgono mirabilmente il paesaggio nordico.

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 Da sopra i cancelli li ho visti allontanarsi con la loro lettiga, andavano come a soffocarsi tra sciarpe di nebbia che s'annodavano lentamente dietro di loro.
Sulla banchina l'acqua batteva forte sulle chiatte ben raccolte contro la piena.
Dalla piana di Gennevilliers arrivava ancora un sacco di freddo a folate tese sui risucchi del fiume fino a farlo brillare tra le arcate.
Laggiù, lontano lontano, c'era il mare.
Ma non avevo più niente da immaginare io sul mare adesso.

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Sono parole ricche di disincanto: l’autore, stretto nella morsa del gelo e della nebbia, non ha più niente da immaginare sul mare, che lontano s’intravede, come a dire: sono finite tutte le illusioni.
 
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Il mondo era rinchiuso! In fondo com'eravamo arrivati noialtri!...
 
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Una cianotica e livida luce baudeleriana si diffonde sulla scena. Sì, c’è anche molto Baudelaire in Céline, il suo senso del male e dello spleen, quei profondi colori ombrosi parigini, cadaverici, e tutto sembra perdersi nella notte, in questo viaggio che termina in fondo laggiù.

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L’'osteria del canale apriva giusto prima dell'alba per i battellieri.
La chiusa cominciava a ruotare lentamente verso la fine della notte.
E poi è tutto il paesaggio che si rianima e si mette a lavorare.
Gli argini si separano lentamente dal fiume, s'alzano, si stagliano ai due lati dell'acqua.
Il lavoro emerge dall'ombra.
Si ricomincia a vedere tutto, tutto semplice, tutto duro.
Gli argani qui, le palizzate dei cantieri laggiù e lontano sopra la strada ecco che tornano da più lontano ancora gli uomini.
Si infiltrano nella luce sporca a gruppetti intirizziti.
Si riempiono di luce tutto il volto per cominciare passando davanti all'aurora.
Vanno più lontano.
Si vede bene di loro solo i volti pallidi e semplici; il resto appartiene ancora alla notte.
Bisognerà pure che muoiano tutti un giorno anche loro.
 
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Alla fine, la narrazione di Celine è all’opposto di quella proustiana, anche perché racconta la vita della gente di bassa estrazione, non come l’altra che ci dipinge ambienti d’altobordo, il mondo del benessere della classe media o dell’antica classe nobiliare.
E in una specie di vortice finale, che tutto richiama nel suo distruttore risucchio, si chiude il libro, con questi  ultimi tocchi da maestro. 
 
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Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un'arcata, un'altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano...
Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più.
 
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Un consumato nichilista, diremmo, Celine, nel suo furore iconoclasta, che nulla risparmia sul suo cammino e tutto travolge nella notte.
Certamente egli costituisce un’esperienza letteraria di forte rilievo nel panorama storico del novecento, potremmo arrivare a etichettarla, per quanto possa servire un’etichetta nel campo della poesia, come l’anti-Proust, nel senso Louis Ferdinand Destouches, in arte Celine ha costituito l’esatto rovescio dell’altro autore francese del tempo. Il primo ha creato una prosa ariosa e sovrabbondante, il secondo una scrittura lapidaria, laconica e spezzata, la prima dal respiro fin troppo ampio, che ricorda un po’ il vecchio asianesimo di classica memoria, la seconda  di corto respiro, per così dire a singhiozzo, così da ricordare, se non fosse per la sua scarsa tenuta logica, l’antico atticismo di altrettanta classica memoria classica; Proust si è imperniato sulla memoria per ricostruire il tempo, Celine sull’attualità per distruggere il tempo, l’uno ci ha dato un’epopea decadente della borghesia francese, l’altro una realistica radiografia della gente comune.
Nel suo delineare un progetto letterario capovolto del  mondo proustiano, riteniamo  Celine abbia un ruolo centrale non solo sulla scena della letteratura francese, ma anche in quella europea  del XX secolo, qualunque sia poi stata la sua vicenda personale politica e umana. Egli, perciò può a buon diritto essere il portabandiera degli scrittori perseguitati (o comunque emarginati) nel proprio paese, la cui lista potrebbe essere abbastanza lunga e l’Italia, in cui tra il potere e i letterati non ha corso mai buon sangue, ne ha una lunga tradizione,  a cominciare da poeti confinati in esilio all’epoca di Roma, come Ovidio o addirittura costretti al suicido, come Seneca e Petronio