UNA RESA DI CONTI
Siamo nel 1926: Italo Svevo data al 14 ottobre di quell’anno l’explicit del suo racconto Una burla riuscita.
E’ l’anno stesso che Le navire d’argent gli ha riservato tutta una sua uscita e l’anno dopo che Joyce lo ha introdotto nei circoli parigini come scrittore.
Ma è come per lo scrittore triestino non fosse successo nulla. Egli compone un racconto acidissimo, quasi una resa dei conti con la vita letteraria italiana e della sua città.
Narra di un certo Mario Samigli, suo pseudonimo letterario di gioventù, che, dilettante di narrativa, finisce vittima di uno scherzo da parte di un amico, il Gaia. Costui gli fa credere di aver ricevuto un contratto da un editore austriaco per la pubblicazione di un suo vecchio romanzo, che non ha mai incontrato fortuna pubblica. Si tratta di un contratto fasullo, ma viene lo stesso depositato in banca, in attesa di copertura, l’assegno corrispondente a suo nome. Per un tiro benevolo del destino, l’assegno cambiato in anticipo in valuta italiana, subisce una rivalutazione, con i nuovi cambi del periodo postbellico, cosicché, pur non avendo copertura, frutta al Samigli un congruo introito ed egli, pur volendo in un primo momento rifiutare quel danaro, perché conseguenza della burla a suo carico, li accetta e migliora la sua posizione economica, come per uno schiaffo alla sua malasorte letteraria e alla cattiveria delle persone che lo circondano.
Veniamo di nuovo all’autore del racconto: Svevo non sembra punto raddolcito dalle sue ultime fortune letterarie, più che altro in Francia, grazie a Joyce. Samigli sembra un po’ il solitario Alfonso Nitti finito suicida in una Vita, un po’ l’asfittico e velleitario Emilio Brentani del grigio ambiente domestico e familiare di Senilità, un po’, per la sua inaspettata fortuna negli affari, lo Zeno Cosini della Coscienza.
Narra di un certo Mario Samigli, suo pseudonimo letterario di gioventù, che, dilettante di narrativa, finisce vittima di uno scherzo da parte di un amico, il Gaia. Costui gli fa credere di aver ricevuto un contratto da un editore austriaco per la pubblicazione di un suo vecchio romanzo, che non ha mai incontrato fortuna pubblica. Si tratta di un contratto fasullo, ma viene lo stesso depositato in banca, in attesa di copertura, l’assegno corrispondente a suo nome. Per un tiro benevolo del destino, l’assegno cambiato in anticipo in valuta italiana, subisce una rivalutazione, con i nuovi cambi del periodo postbellico, cosicché, pur non avendo copertura, frutta al Samigli un congruo introito ed egli, pur volendo in un primo momento rifiutare quel danaro, perché conseguenza della burla a suo carico, li accetta e migliora la sua posizione economica, come per uno schiaffo alla sua malasorte letteraria e alla cattiveria delle persone che lo circondano.
Veniamo di nuovo all’autore del racconto: Svevo non sembra punto raddolcito dalle sue ultime fortune letterarie, più che altro in Francia, grazie a Joyce. Samigli sembra un po’ il solitario Alfonso Nitti finito suicida in una Vita, un po’ l’asfittico e velleitario Emilio Brentani del grigio ambiente domestico e familiare di Senilità, un po’, per la sua inaspettata fortuna negli affari, lo Zeno Cosini della Coscienza.
In fin dei conti, la sua creatura è sempre quella del per così dire vinto di verghiana memoria, ma un vinto più che nell’interesse materiale, in quello dei sentimenti e dello spirito: un fallito della letteratura.
Ma trova il modo di riuscire, come Zeno nei soldi, si arricchisce, e non per suo merito, ma per una sfacciata fortuna, addirittura grazie a una burla ai suoi danni, che si volge così a suo favore.
Certo il racconto ha qualche sbavatura, è un po’ slegato e con delle mancanze di tenuta narrativa e formale: gli sono estranee sia la tensione e la modernità della Coscienza, sia la cura espressiva di Senilità, sia la correttezza narrativa di Una vita. Resta pur sempre il documento di una esperienza letteraria vissuta in prima persona e avviata verso la tarda maturità. Di lì a cinque anni Svevo sarebbe perito in un incidente d’auto.
Trent’anni e più di indifferenza del mondo letterario italiano mostrano di aver marchiato a fuoco l’animo dello scrittore: nulla potrà più ripagarlo di così lunga trascuratezza, di un così lungo ostracismo culturale. Anche perché allora in Italia egli era ancora per troppi un illustre sconosciuto, laddove D’annunzio veniva portato sugli scudi, Pirandello era prossimo a conoscere la stagione del successo e una pletora di nomi insignificanti delle lettere affollavano le cronache mondane dell’Italietta uscita vincitrice dall’ultima guerra.
Svevo era lì con questo racconto a rinfacciare a tutti la loro colpevole cecità, a ricordare che nel belpaese si sanno prendere, quando si vuole, delle clamorose cantonate, che la vera letteratura molto spesso è emarginata e nascosta dietro il paravento di gruppi di potere, quelli che si è chiamati qualche volta i clan della letteratura, che fanno in questo stato quel che gli pare, non in nome dell’arte dello scrivere, ma in quello dei propri comodi personali. Non v’è oggi in pubblico una letteratura come dev’essere, ma come vogliono che sia i caporioni di questi clan.
E valga anche di monito per i lettori del belpaese a non lasciarsi prendere per i fondelli da certa editoria di grido, che spaccia per capolavori delle croste. La letteratura in Italia, e forse l’Italia stessa, così nella morsa di sottaciute e mascherate ostilità territoriali, che non di rado degenerano in aperte manifestazioni di discriminazioni reciproche, è tutta da rifare.
Si leggano ora del racconto in oggetto i brani che seguono; nel primo il Gaia, il burlone, tende la trappola al Samigli: gli fa credere che un editore austriaco sia intenzionato a pubblicare un suo libro di gioventù
La burla si scaricò sul capo del povero Mario come se si fosse trattato di un esplosivo che per caso avesse trovato il contatto col fuoco. Così il Gaia imparò che anche la burla come tutte le altre opere d'arte può essere improvvisata. Egli non credeva al suo successo e si preparava ad annullarla dopo di essersene servito a manifestare il suo disprezzo a quel presuntuoso. Poi, invece, Mario abboccò tanto bene che liberarnelo sarebbe costato uno sforzo grande. E il Gaia lasciò vivere la burla, ricordando come a Trieste vi fossero pochi divertimenti. Bisognava rifarsi di un'epoca troppo lunga di serietà.
La iniziò con veemenza: “Dimenticavo di dirtelo. Tutto si dimentica in una giornata simile. Sai chi ho visto nella folla plaudente? Il rappresentante dell'editore Westermann di Vienna. M'avvicinai a lui per seccarlo. Applaudiva anche lui che non sa una parola di italiano. E invece che risentirsi, mi parlò subito di te. Mi domandò quali impegni tu avessi col tuo editore per quel tuo vecchio romanzo Una Giovinezza. Se non erro, tu l'hai venduto quel libro?”.
Nient'affatto, - disse Mario con grande calore. - È mio, del tutto mio. Pagai le spese dell'edizione fino all'ultimo centesimo, a dall'editore non ebbi mai niente”.
Parve che il commesso viaggiatore desse grande importanza a quanto apprendeva. Egli ben sapeva quale aspetto dovesse assumere un uomo quando improvvisamente vede affacciarsi la possibilità di un buon affare, perchè egli aveva almeno una volta al giorno quell'aspetto. Si raccolse e s'inarcò come se avesse voluto prendere uno slancio:
“C'è allora la possibilità di vendere quel romanzo - esclamò - Peccato ch'io non lo avessi saputo. E se ora buttano subito fuori di Trieste quel tedescone? Addio affare! Pensa ch'egli è venuto a Trieste proprio per trattare con te”.
La iniziò con veemenza: “Dimenticavo di dirtelo. Tutto si dimentica in una giornata simile. Sai chi ho visto nella folla plaudente? Il rappresentante dell'editore Westermann di Vienna. M'avvicinai a lui per seccarlo. Applaudiva anche lui che non sa una parola di italiano. E invece che risentirsi, mi parlò subito di te. Mi domandò quali impegni tu avessi col tuo editore per quel tuo vecchio romanzo Una Giovinezza. Se non erro, tu l'hai venduto quel libro?”.
Nient'affatto, - disse Mario con grande calore. - È mio, del tutto mio. Pagai le spese dell'edizione fino all'ultimo centesimo, a dall'editore non ebbi mai niente”.
Parve che il commesso viaggiatore desse grande importanza a quanto apprendeva. Egli ben sapeva quale aspetto dovesse assumere un uomo quando improvvisamente vede affacciarsi la possibilità di un buon affare, perchè egli aveva almeno una volta al giorno quell'aspetto. Si raccolse e s'inarcò come se avesse voluto prendere uno slancio:
“C'è allora la possibilità di vendere quel romanzo - esclamò - Peccato ch'io non lo avessi saputo. E se ora buttano subito fuori di Trieste quel tedescone? Addio affare! Pensa ch'egli è venuto a Trieste proprio per trattare con te”.
E Samigli ci casca, attratto dalle sue fole letterarie, s’inventa nella sua fantasia una celebrità
Tutta la storia della letteratura era zeppa di uomini celebri, e non già dalla nascita. A un dato momento era capitato da loro il critico veramente importante (barba bianca, fronte alta, occhi penetranti) oppure l'uomo d'affari accorto, un Gaia reso più importante da qualche tratto del Brauer ch'era troppo pesante per l'abitudine alla dipendenza, e non poteva perciò impersonare un creatore d'affari, ed essi subito assurgevano alla fama.
Ecco che il Gaia gli propina il trucchetto: l’assegno dell’editore a suo nome non deve essere incassato, ma solo depositato in banca (la verità è che si tratta di un assegno fasullo)
“Non si tratta di questo ” disse il Gaia tuttavia esitante. Poi, deciso, spiegò: “Non devi vendere subito quest'assegno. Me ne pregò il rappresentante di Westermann. È firmato da lui, e con le comunicazioni postali di adesso, non è sicuro che il suo avviso giunga in tempo”. Gli parve che la faccia di Mario si oscurasse e aggiunse: “Ma tu non devi temere. Se guardi l'assegno, vedrai ch'è firmato dal procuratore di Westermann. Tu devi consegnarlo alla Banca impartendole l'istruzione di non levare protesto in caso di rifiuto”. Infine parve che il Gaia si pentisse delle proprie parole. “Io ti dico tutto questo principalmente per evitarti una seccatura. Anche se tu lo volessi, ai tempi che corrono, la Banca non pagherebbe quest'assegno, benché munito di tanta firma. Vale perciò meglio di consegnarlo alla Banca perché lo incassi. Io non ho alcuna premura di avere la mia provvigione. Ne sono tanto sicuro come se l'avessi già in tasca”. Mario promise di conformarsi strettamente alle sue istruzioni. Del resto aveva già pensato di fare così. Con quell'assegno in tasca, s'ergeva anche lui ad uomo d'affari. E il Gaia poté sentirsi tranquillo che la burla non avrebbe implicato né per lui né per Mario uno scontro con l'autorità giudiziaria. V'erano anche delle ragioni più alte che lo tranquillavano. Credeva, cioè, che in tutti i paesi civili, i diritti della burla fossero riconosciuti.
Ma il Samigli mangia la foglia e si rende conto con un po’ di ritardo di essere stato raggirato dal Gaia e, incontratolo per strada, gli rende il fatto suo
Mario, che ora batteva i denti (non sapeva neppur lui se dal freddo o dall'eccitazione), l'affrontò ruminando parole relativamente miti con cui domandare delle spiegazioni. Ma il Gaia ebbe la sfortuna d'essere poco attento, forse causa la fretta. Senza averlo salutato, gli domandò: “Hai avuto notizie del Westermann?”.
Le parole preparate con tanta accuratezza, svanirono, e Mario non ne trovò altre. Il suo organismo intero era come un arco che nelle lunghe ore d'impazienza si fosse teso sempre più fino al limite della resistenza. Scattò: lasciò cadere sulla faccia del Gaia un manrovescio enorme di cui non avrebbe creduto capace la sua mano e il suo braccio, che da lunghi anni non avevano conosciuto alcun moto violento. Il colpo fu tale che dolsero anche a lui il pugno ed il braccio, e fu in procinto di perdere l'equilibrio.
Il cappello del Gaia era stato abbandonato alla bora che lo sollevò alto, alto. Ora un cappello, specie quando soffia la gelida bora, è un oggetto molto importante, e il Gaia perdette la poca capacità di reazione che poteva avere, per seguirlo con l'occhio, esitante se non dovesse rincorrerlo. Ciò gli conferì per un istante un'aria d'indifferenza che fece trasalire Mario. Forse egli aveva sbagliato. Forse il Westermann esisteva tuttavia. E allora che figura avrebbe fatto? Fu un attimo angoscioso e di speranza intensa. Aveva ancora la minaccia nell'occhio, e pur supponeva che forse un momento dopo si sarebbe dovuto gettare ai piedi del Gaia.
Ma intanto il cappello del Gaia, dopo essere calato a terra, sparì ruzzolando sul marciapiedi, dietro al prossimo svolto. S'avviava al Canale, alla definitiva perdizione, ed il Gaia comprese che non lo poteva ripigliare. S'avvicinò a Mario, da cui l'aveva allontanato il manrovescio, e Mario si sbiancò accorgendosi che voleva parlare e non reagire. Da tutte le bestie intelligenti si osserva che un forte dolore fisico come quello prodotto al Gaia dalla percossa, dà intero il sentimento del proprio torto. Intanto, per poter protestare, confessò: “Perché? Per uno scherzo innocente”.
E così Mario apprese con disperazione ma anche con sollievo che il Westermann proprio non esisteva. Confermò subito il manrovescio precedente con un altro.
Le parole preparate con tanta accuratezza, svanirono, e Mario non ne trovò altre. Il suo organismo intero era come un arco che nelle lunghe ore d'impazienza si fosse teso sempre più fino al limite della resistenza. Scattò: lasciò cadere sulla faccia del Gaia un manrovescio enorme di cui non avrebbe creduto capace la sua mano e il suo braccio, che da lunghi anni non avevano conosciuto alcun moto violento. Il colpo fu tale che dolsero anche a lui il pugno ed il braccio, e fu in procinto di perdere l'equilibrio.
Il cappello del Gaia era stato abbandonato alla bora che lo sollevò alto, alto. Ora un cappello, specie quando soffia la gelida bora, è un oggetto molto importante, e il Gaia perdette la poca capacità di reazione che poteva avere, per seguirlo con l'occhio, esitante se non dovesse rincorrerlo. Ciò gli conferì per un istante un'aria d'indifferenza che fece trasalire Mario. Forse egli aveva sbagliato. Forse il Westermann esisteva tuttavia. E allora che figura avrebbe fatto? Fu un attimo angoscioso e di speranza intensa. Aveva ancora la minaccia nell'occhio, e pur supponeva che forse un momento dopo si sarebbe dovuto gettare ai piedi del Gaia.
Ma intanto il cappello del Gaia, dopo essere calato a terra, sparì ruzzolando sul marciapiedi, dietro al prossimo svolto. S'avviava al Canale, alla definitiva perdizione, ed il Gaia comprese che non lo poteva ripigliare. S'avvicinò a Mario, da cui l'aveva allontanato il manrovescio, e Mario si sbiancò accorgendosi che voleva parlare e non reagire. Da tutte le bestie intelligenti si osserva che un forte dolore fisico come quello prodotto al Gaia dalla percossa, dà intero il sentimento del proprio torto. Intanto, per poter protestare, confessò: “Perché? Per uno scherzo innocente”.
E così Mario apprese con disperazione ma anche con sollievo che il Westermann proprio non esisteva. Confermò subito il manrovescio precedente con un altro.
Alla fine, poi la fortuna premia lo sfortunato scrittore ed egli va incontro ad un inaspettato profitto finanziario
Poi avvenne l'inaspettato. Una scoperta: anche agli uomini più pratici accade di seguire da vicino lo svolgimento dei fatti, di conoscerli interamente dal loro inizio, e di restare poi stupiti trovandosi di fronte ad un risultato che si sarebbe potuto prevedere, stendendo sulla carta un paio di cifre. Gli è che certi fatti spariscono nella nera notte quando accanto a loro altri brillano di luce troppo fulgida. Finora tutta la luce s'era riversata sul romanzo, che ora piombava nel nulla, e appena adesso il Brauer si ricordava di aver venduto per conto di Mario duecentomila corone al cambio di settantacinque. Ma il cambio austriaco, negli ultimi giorni, s'era affievolito di tanto che, per quella transazione, Mario si trovava ad aver guadagnato settantamila lire, giusto la metà di quanto avrebbe ricevuto se il contratto col Westermann fosse stato fatto sul serio.
In tal modo la sua posizione familiare (egli vive con un fratello ammalato) viene non poco sollevata
I denari furono molto utili ai due fratelli. Data la modestia delle loro abitudini, garantivano loro per lunghissimi anni, se non per sempre, una vita più facile. E la smorfia che Mario aveva abbozzato incassandoli, non la ripeté quando li spese. E talora gli parve persino che gli fossero provenuti - premio pregiatissimo - dalla sua opera letteraria. Però il suo intelletto abituato a concretarsi in parole precise, non si lasciava ingannare quanto sarebbe occorso per la sua felicità.
E’ il solito Zeno Cosini, maldestro uomo d’affari, che viene imprevedibilmente baciato in fronte dalla fortuna? Direi di sì, ma qui, nonostante le debolezze letterarie del racconto già notate, v’è in più il documento di una dolorosa esperienza letteraria, che si chiude con il più sardonico dei sarcasmi, un terribile atto di accusa che Italo Svevo lancia alla società e cultura dell’Italia del suo tempo.
Nessun commento:
Posta un commento