martedì 3 settembre 2013


L’ORA DELLA POESIA
(La poesia secondo Allocca)


Henry Matisse: La tristesse du roi


Così un critico avveduto avrebbe dovuto illustrare le produzioni poetiche di Gerardo Allocca, se solo ce ne fosse stato in questo per così dire paese qualcuno come si deve e in buona fede, non fuorviato dal vero per volontà di clan e malversatori della letteratura pubblica, annidati nelle case editrici e nei giornali:  
Quando, nel 1925, Montale pubblicò gli Ossi di seppia, si era in piena stagione dannunziana e chi ebbe del fiuto, capì subito che si trattava di un'altra cosa, che veniva a riallacciarsi all’esperienza dei vari Mallarmé e Rimbaud, dei Pascoli e Carducci e che infrangeva i connotati peculiari dell’arte dell’abruzzese, risiedenti nell’esaltazione dell’eloquio e della personalità poetica, dell’uomo d’eccezione. Nasceva una poesia del bisbiglio, che sommessamente dichiarava il male di esistere, la negatività dell’uomo, pur nella rassegnata accettazione del comune destino di cittadini di questo mondo, tutti divenuti “pietre scabre corrose” dalla marea e pertanto, nella nostra miseria di vivere, affratellati. Questa poesia veniva ad imparentarsi con altre voci, di Ungaretti, di Gatto, di Quasimodo, con le quali andava a inscrivere quella parentesi che fu chiamata ermetica, pur non essendo propriamente una corrente. Questo modello artistico trovava poi riscontro nell’aggiornato e inedito discorso del verbo lirico speculativo e raziocinante d’oltre Manica uscito dalla penna di Thomas Eliot e di Auden, che faceva compiere a questo genere letterario un forte balzo in avanti. Con l’età di mezzo del novecento, si fece strada anche una nuova visione della poesia, che raccoglieva le istanze dei tempi difficili in corso dell’ultima guerra e dell’immediato dopoguerra e si affiancava alla narrativa cosiddetta neorealistica. Con gli anni sessanta vi fu una nuova svolta e si passò nell’ambito della sperimentazione avanguardistica, che mirava a stravolgere la stessa versificazione sulla scia di Mallarmé e del futurismo e distorcere il lessico  e la fraseologia tradizionale, creando un impasto linguistico di nuovo conio.
Così noi, giunti che fummo agli anni ottanta eravamo di fronte a delle svolte: o inaridire il genere lirico fino all’afasia o al vaniloquio, strada percorsa da molta avanguardia, come naturale sviluppo delle ricerche ermetiche, a sua volta figlie del simbolismo francese oppure proseguire il discorso della poesia metafisica e meditativa di estrazione eliotiana o ancora ricadere nella faciloneria della poesia  sentimentale, banale e melodica, riconducibile in seguito al suo scadimento volgare, nella sua dimensione aulica, fino a Leopardi e Manzoni, attraverso Cardarelli e i crepuscolari, come Gozzano.
Intraprendere una qualunque di queste tre vie sarebbe stato ugualmente vano e improduttivo, in quanto o si sarebbe arrivati al capolinea della poesia o si sarebbero ripetitivamente ricalcate le orme altrui o si sarebbe finiti nel triviale e melodrammatico.
Allocca ha inteso recuperare l’espressione lirica sulla soglia dei suoi funerali ed è andato a riscoprire le antiche sorgenti classiche della melica eolica greca, cercando in esse le radici per una rinascita della versificazione; non solo, ma ha riportato in essere, non per stantìo passatismo, le briglie di una disciplina metrica, ormai smarrita e deterioratasi spesso nel caos espressivo del dilettantismo più sfrenato. Sfuggire, da un lato alle reticenze e alle fumosità verbali e solipsistiche di un’avanguardia a vicolo cieco, dall’altro al rimuginare lambiccato della metafisica lirica, da un altro ancora al semplicismo improvvisato della poesia all’impronta dal cuore in mano: sono queste le direttive, i dettami che egli si è dato, nel costruire la sua impronta artistica personale. Ne è venuta fuori una versione moderna della composizione, che ha mirato a preservare il carattere originario di essa, il canto, come insegnato dai lirici greci, ma un canto, ovviamente, non a ruota libera, bensì rigorosamente controllato da un’accorta grammatica dichiarativa e teso a parlare, per così dire per parabole continue, attraverso immagini significanti. Questo autore conferma, quindi, come poeta, quanto già notato su di lui come prosatore, l’aver cioè saputo egli riassumere in sé, rielaborandole poi alla luce della sua moderna sensibilità e coscienza, tutte le istanze letterarie del XX secolo anche in campo lirico.
Non più, dunque una poesia dei significanti, come ci avevano abituato i poeti simbolisti ed ermetici, sfocianti nelle spericolatezze avanguardistiche, né una poesia ragionativa, come avevano insegnato grandi maestri del novecento come Eliot e Auden, né una poesia leggera ad orecchio e a mano libera, scadente formato e linea di mercato del lirismo corrente, ma un fraseggio, nè asciutto nè astratto o chiuso, bensì ritmato e armonico, per quanto sorvegliato da severi calchi metrici e ben lungi da ogni luogo comune del parlare e del pensare, nonché estraneo a qualunque speculatività, per quanto con delle calibrate mire, dei ben precisi bersagli comunicativi e rappresentativi.  Queste sono le composizioni in versi dell’Allocca.
                                                                                          L’eretico Bruno

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Qualche pagina, adesso della poesia su cui si viene appena dal conferire.


  
ORE  15


Meglio era dunque antico un tour romantico
en Italy, tra dei souvenirs classici,
tarantelle e panorami e da greco
patriota incrociare straniero i calici
e le armi o il capo alla corte di principi
piegare umano o ereggerlo ribelle,
folle o anche indiarsi cantando di papi
e Laure, sferzare al lume di candele
errori o affrescare su dei papiri
miti alla pax Julia, sulle onde lesbiche
pianti abbandonare  -  che ora, qui, i fari
di queste auto sull’autostrada, in banche
gestire assegni, l’asfissia di un decimo
piano tra grattacieli, in noi, in festa anche,
la cenere mortale, agli occhi il fumo
sempre a velare all’orizzonte il mare
laggiù e in strada a mezzanotte alle spalle,
allucinati, l’assassino in ombra
sotto i lampioni. Che ora, sotto pelle
l’urlo senza voce e il morso del cobra.
                                               
                                                   
                                                Gerardo Allocca


  
LE BARCHE NON PIU’


Oramai le barche sulla spiaggia
in secca non fanno estate, i castelli
su clivi erbosi non medioevo, uggia
non le mattine piovose, i cristalli
non purezza e limpidezza specchiata. 
Polvere n’è passata sotto gli usci
e s’è guastato il lucchetto di latta
con l’album dei ricordi dentro, i gusci
delle conchiglie sono tutti vuoti
e allineati come soprammobili,
spolpati d’ogni carne e rinsecchiti.
Tornammo non più noi, stranieri e soli
in patria dopo un lungo viaggio in mare
intorno al mondo e ora è tutt’altra musica:
 l’azzurro non è più azzurro, il fiore
di giglio non più quello, la fabbrica
accanto al convento irriconoscibile.
Così il nostro inverno è un altro, il sambuco
del giardino era un salice, potabile
non più l’acqua del pozzo, più assai carico
il colore del tramonto e l’aurora
più scialba parecchio, ormai che di nuovo
sulle nostre imperiali vie orma barbara
passò e in stazione fuori ora è ogni arrivo.

                                                                                                                                                                                            Gerardo Allocca



IN DATA


Quello era solo il pallido ricordo,
non era quello il cedro, né più il vento
che c’investì o quei sedili e lo sguardo
del busto antico sul viale alberato.
Non era lì dove favoleggiammo
splendidi approdi sulle nostre rotte,
di là dall’orizzonte c’imbattemmmo
nei pirati e ci furono sfasciate
dalla burrasca le golette: appena
ci riportò nel porto la scialuppa.
No, quella vasca era lì tutta piena
 di pesci, allora, e al tuo collo una sciarpa,
non questo l’asfalto lungo il cammino,
non lo chalet del bar ora sfollato,
né tu, ora chi sa dove, né io e perfino
non era Lia il tuo nome e l’ho scordato.


                                                         Gerardo Allocca



GELI  DI  DICEMBRE


Verdacqua un drappo freddo di velluto
veste lo scheletro dei dì infeltriti,
mente ogni diario di bordo sul conto
del teatro che qui s’inscena (in crediti,
debiti o saldi) ora per ora, imposta
sul soggiorno terreno. Un Aiace tace
il passante, un Edipo, un Bruto sta
in ogni utente del tram e a nostra pace
l’olio di ricino edulcora a miele
chi a colazione siede con due mele.

                                                                                                                                                                                            Gerardo Allocca



 TRATTI A BIRO 


Diversamente i parati in salotto
potevano essere non floreali,
ma geometrici, le lenti al volto
oblunghe e non tonde, il nome dei pargoli
non Giacomo e Ada. Poteva quel giorno
il maestrale non soffiare forte
così e non ritardare tanto il treno
anni dopo, il bar dove sempre a volte
il caffè fumava chiamarsi Il falco
e poi non stare al corso, bensì all’angolo.
La panchina essere al viale del parco
di marmo e non di ferro, in  porto al molo
la nave partire per la Malesia
e non via per l’Egitto, non infrangere
l’orde al foro il busto di Febo ardesia
e una mano sfasciare le chitarre.


                                                           Gerardo Allocca


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