lunedì 1 luglio 2024

IL TROUBADOUR XXIV-II

L'eretico Bruno costituisce l'organo ufficiale dello scrittore (narratore e poeta) Gerardo Allocca, che vi pubblica a tutti gli effetti legali suoi contenuti letterari o saggistici. Si diffida chiunque dal riprodurli in parte o integralmente, essendo protetti dal diritto d'autore. Già dal nome il blog L'eretico Bruno tradisce la sua diretta correlazione con il filosofo nolano. E se da un lato il riferimento ad un eretico finito sul rogo non è proprio di buon auspicio, dall'altro questa intestazione suoni anche come un avviso nei riguardi di certi ambienti e clan al titolare di questo blog ostili che noi nolani abbiamo la testa dura, andiamo fino in fondo e lasciamo un segno non facilmente obliterabile del nostro passaggio







Paul Klee - Paesaggio sommerso




E' l'ora della poesia. Esiste ancora oggi?  La domanda è legittima, a considerare che ai giorni nostri essa è talmente svalutata e banalizzata che si è ridotta a esercizio di domenicale dilettantismo e pedestre espressione quotidiana, oltre al fatto che la sua manifestazione veramente autentica riesce quanto mai ostica e proibitiva in un mondo come  l'attuale in cui l'impoetico, lo sgraziato, il volgare, il dozzinale la fanno da padroni, insieme alla spersonalizzazione e al disprezzo della personalità.

Ma persiste in noi il bisogno di una scrittura più nobile, che nasca dalle sorgenti più distillate della coscienza e della cultura individuale. Un bisogno che ci dispone ancora a tentare la poesia, dando aperto corso al canto, inteso come liberazione dell'anima, che in esso si espande e realizza provvisoriamente. La poesia diviene così anche il momento per svincolarsi dalla sudditanza alla coartazione di una quotidianità alla mercé dello squallore, in cui dettano legge poteri sordi e particolaristici e clan di ogni sorta, compresi quelli a sfondo culturale ed artistico, che tutti imperversano in questo paese, tradizionalmente esposto ad essi, perché per natura propenso all'autoritarismo e al dirigenzialismo. Se poi riflettiamo che siamo immersi nella grande mondializzazione, gestita dall'influenza determinante dei media, che dirigono ormai le azioni della nostra vita, si capisce come tutti quanti abbiamo necessità di sganciarci da queste ipoteche  gravissime alla nostra intimità e, per così dire, giurisdizione privata.  

La poesia ce ne offre la possibilità, essa dunque valvola di sfogo all'abbandono e alla prevaricazione del mondo circostante, che ci scavalca e decide al nostro posto. Essa è l'occasione per essere finalmente noi stessi, per personalizzarci. Tuttavia, come  dicevo, la poesia è più che mai un rischio, perché facilmente può cadere nell'impoetico, nel banale, nell'impersonale. Ed ecco che quel rischio compare e la poesia diviene superstite, cioè il residuo ancora possibile di quell'aspirazione millenaria dell'anima. Come tale, ecco a voi qualcuna di queste scommesse dai miei Versi superstiti già pubblicati in volume su  Amazon (delle 2 poesie si può anche seguire l'audio all'interno del mio video You tube dal titolo Storia di un autore - VI tempo: Aggiornamento)





LUNGI LA PETROLIERA




Esposta all’impeto di venti e flutti, 

sulla rocciosa scogliera a strapiombo,

non può l’uccello che strillare a tratti.

Non fu che al lotto mancò il terno o l’ambo

o si strappò la rete al pescatore

e l’auto s’inceppò entro vie isolate,

grandine mieté nel campo ogni fiore,

sfondarono i nemici ancora al fronte. 



 

Egli, no, non poteva che salubre

strillare al becco proteso lontano.

L’estate perché moriva a settembre,

a sera sempre tramontava il giorno,

sempre candela ardendo si spegneva,

 fascio d’iris mai che non appassisse,

arrivato ogni treno ripartiva,

mai onda alla riva non si disfacesse.

Perché Bach suonato sul clavicembalo  

zittiva ogni volta all’ultima nota,

mai accadeva anche al teatro più bello

Hamlet non cadesse sulla ribalta.






NIENTE DA OSSERVARE




Niente, non c’è nient’altro da ridire

se non che poteva spirare allora

da sud quel vento, mica quelle barbare   

raffiche da nord che l’alba ebbe paura

addirittura anch’essa, per le sette

quell’appuntamento essere e non l’una,

non così affollate quelle serate,

trovarsi all’ultimo quarto la luna

e non al primo, quel carico d’oro

non viaggiare in aereo, ma in mare,

quella voce non come il marmo duro,

ma come campana al vespro squillare. 




Ma caddero i loti all’albero marci,

le fanfare non suonarono in strada,

s’insediarono poi sul trono i proci,

divenne in giardino ogni ortensia fetida,

sciamarono dai confini tra fori, 

capitelli, triclini, archi trionfali.

Non bastava che di ruggine i cuori

si coprissero nei privati annali,

ci voleva che l’acqua, in scure vene

scorrendo, tra i tuberi e le radici,

 spuntasse al sole nera più di penne

di corvo, anche più amara degli arsenici.  


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